La solitudine della scrittura. Marguerite Duras, Scrivere
Estratto da Scrivere di Marguerie Duras (Feltrinelli, 1994, traduzione di Lionella Prato Caruso)
La
solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si
realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora. Ci vuole
sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una
solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per
cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a
ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci,
quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La
solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.
Trovarsi
in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che
soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza
alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro.
Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una
scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare.
Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani
vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura
asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree
elementari: ortografia, senso.
Nella
vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si
mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della
coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci
cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla
solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero
sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno
scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio è
scrivere. Dunque, è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo
si è sempre saputo.
Finché
c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a
mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che
sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai
scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho
strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non
esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si
sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.
Tutto
scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.
Scrivere
comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale
disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che
porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo:
lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un
altro possibile di quello stesso libro.
Quando
un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire,
leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state
scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata
oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si
può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme,
placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso
raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo.
Esser
soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno
dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta.
Significa tentare di non morirne.
Non
so che cos’è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non
c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti.

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