A trent'anni dal genocidio di Srebrenica. Cosa rimane e cosa ne sarà
Ho fatto ricorso a una vecchia fotografia, di quelle piegate in due e custodite per anni nel portafoglio, tra la plastica opaca e la fodera consumata. Era uscita da una macchina fotografica che non esiste più, parte di un rullino andato perduto. Nel caso specifico, la foto è stata piegata in più parti e ora le sue pieghe sembrano appartenere al paesaggio che ritrae. Non volevo tradire la verità della scena rappresentata pertanto, diversamente da quanto ho fatto in altre occasioni, ho aperto con cautela il portafoglio, cercato la tasca nascosta, fatto scorrere la cerniera ed estratto quel documento, reperto di un'epoca lontana nel tempo.
Estate 1995. Bagno Carlo 65, Rimini. Il bagnasciuga è un ammasso di corpi sudati che odora di crema solare e abbronzante Bilboa, che si muove avanti e indietro all’unisono, che entra in acqua, che gioca a racchettoni, che ascolta Think Of You di Whigfield e Memories di Netzwerk mentre la radio gracchia pubblicità locali e annuncia un bambino col costumino blu smarrito al bagno 32. In primo piano, l’obiettivo ha immortalato due bambine in posa accanto al pattino rosso. La più alta ha la mano sinistra appoggiata a uno dei remi, i capelli lunghi e scuri, una folta frangia e una treccina colorata che parte dalla radice e scende per tutta la lunghezza. Sorride senza mostrare i denti (ha un canino sporgente, se ne vergogna profondamente). L’altra ha i capelli raccolti, indossa un costume intero arancione con due fiocchi all’altezza delle spalle, la testa è reclinata e appoggiata alla spalla della bambina dai capelli lunghi e scuri. Le tiene la mano destra, sorride all'obiettivo. Ho altre foto di quell’agosto del '95 ma questa è una delle poche che ho conservato nel portafoglio. Affermo con certezza che il mese fosse agosto perché era il periodo in cui la fabbrica dove lavorava mia madre chiudeva e lei poteva permettersi (e non tutti gli anni) di fare una settimana a Rimini. A nostra insaputa, ci collocavamo nel turismo di massa iniziato negli anni '60 proprio in riviera e che ha fatto di Rimini il simbolo di questo tipo di turismo.
Dalla primavera, appena mia madre prenotava una camera alla pensione Valverde, aspettavo con ansia che
arrivasse quella settimana di ferie che mi avrebbe portata lontano dal caldo
umido della Pianura Padana.
Ma era luglio a rappresentare il mese dell’attesa. E quel luglio del 1995 coincideva anche con il mio decimo compleanno. Intanto bramavo Rimini, quella palude bollente di anime, come l’aveva definita, esattamente dieci anni prima, Pier Vittorio Tondelli nel suo Rimini.
Non sapevo che in quel luglio infuocato c’erano altri bambini che speravano, bramavano, che attendevano. Non una vacanza al mare, non le ferie in riviera, non le treccine colorate o la cassetta da inserire nel walkman.
Quello che attendevano, ciò in cui speravano era la fine della guerra, del massacro, il ricongiungimento con i propri fratelli e le proprie sorelle, con le madri e i padri. Erano i bambini di Srebrenica. E io, che avrei posato davanti al pattino rosso del Bagno 65 di Rimini con un sorriso abbozzato, ignara della Storia, non sapevo nemmeno che esistessero.
In quel luglio torrido mentre compravo Cioè e collezionavo i poster al suo interno (la gioia nel trovare il maxi-poster di Leonardo Di Caprio e attaccarlo al muro contravvenendo alle regole di casa), i bambini di Srebrenica venivano trucidati dal generale Ratko Mladic, quei bambini che il generale, come ha ricordato di recente sul Corriere della Sera Francesco Battistini, “accarezzava prima di mandarli sottoterra”. E ancora, scrive Battistini: "Nel luglio 1995, in soli otto giorni, vennero uccise quasi 10mila persone. Il mondo restò a guardare, a partire dai Caschi blu Onu che avrebbero dovuto proteggere l’enclave musulmana".
Valigia Blu fa un passo indietro e ripercorre, a ritroso, ciò che accadde. "Il genocidio di Srebrenica che ha sconvolto tutto il mondo è avvenuto in una zona considerata sicura e protetta. Nel 1992 Srebrenica fu assediata dalle forze serbe sotto il comando di Ratko Mladić, all'epoca Capo di Stato Maggiore dell'esercito serbo. Le condizioni umanitarie all'interno della città erano estremamente difficili, mancavano i beni primari, il cibo, l’acqua, le medicine. Nel 1993 le Nazioni Unite designarono Srebrenica come "area protetta", sotto la tutela di un contingente olandese delle Forze di protezione delle Nazioni Unite (United Nations Protection Force -UNPROFOR), ma nel luglio 1995, le forze serbe, altamente equipaggiate, riuscirono a sfondare le difese di Srebrenica e, nonostante la presenza di truppe dell'ONU, la città fu rapidamente conquistata. In poche ore, i soldati serbi separarono gli adulti di sesso maschile, principalmente uomini e ragazzi, dalle donne, dagli anziani e dai bambini. Queste azioni contribuirono ulteriormente a disumanizzare le vittime, rendendole oggetto di crudeltà senza pietà. A partire dal 11 luglio, i soldati serbi iniziarono a massacrare in maniera indiscriminata gli uomini bosgnacchi".
Davanti a me ho solamente l’immagine di quella bambina dai lunghi capelli scuri che, nei due anni precedenti, porta a scuola beni di prima necessità e li raccoglie in grandi scatoloni, insieme ai suoi compagni classe e con l’aiuto delle insegnanti, per poi spedirli ai "bisognosi dei Balcani".
Dei bambini di Srebrenica e delle loro famiglie, non conservo alcun
ricordo.
Continua Valigia Blu: "Quello stesso giorno, davanti a una folla di
giornalisti riuniti, il generale Ratko Mladić ha dichiarato: -Alla vigilia di
un'altra grande festa serba, facciamo dono di questa città al popolo serbo. È
giunto il momento di vendicarsi dei Turchi-. Quella stessa notte, circa 15.000
uomini bosniaci musulmani si radunarono nella zona di Šušnjar e Jaglići, si
incamminarono nei boschi nel tentativo di raggiungere territori liberi. Più di
due terzi degli uomini che intrapresero quel percorso, che sarebbe stato
ricordato come La Marcia della morte, fu catturato e ucciso dall’Esercito
della Repubblica Serba. Nel frattempo, la base ONU a Potočari era sovraffollata
di civili. Nel momento in cui i soldati dell’esercito serbo presero il controllo
del campo, senza alcuna resistenza da parte delle forze ONU, fino a 6.000
rifugiati si trovavano all’interno della base olandese, mentre oltre 20.000
persone avevano trovato riparo negli edifici industriali circostanti. Oltre
alla mancanza di cibo e acqua, i civili musulmani a Potočari furono sottoposti
a indicibili abusi da parte dei soldati del VRS. I sopravvissuti hanno
testimoniato torture, pestaggi, stupri e uccisioni".
Lo scorso anno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a favore dell’istituzione di una Giornata annuale di ricordo del genocidio di Srebrenica del 1995. E’ stato pertanto riconosciuto l'11 luglio come Giornata internazionale della memoria del genocidio di Srebrenica. La risoluzione è stata promossa da Germania e Rwanda, mentre Serbia, Russia e Ungheria "si sono schierate apertamente contro e il presidente serbo Aleksandar Vučić ha avvertito che la risoluzione potrebbe aprire un vaso di Pandora, alimentando il separatismo della Republika Srpska. In seguito a queste affermazioni, l’Associazione delle Vittime e dei Testimoni del Genocidio ha lanciato, nell’ottobre 2024, un nuovo sito web per monitorare e documentare tutte le forme di negazione del genocidio e dei crimini di guerra in Bosnia ed Erzegovina".
Nel 2020 la regista, sceneggiatrice e produttrice Jasmila Žbanić porta al cinema Quo vadis, Aida?, primo film a trattare direttamente del massacro di Srebrenica. Rivederlo alla luce dei fatti accaduti, delle vicissitudini e del trentesimo anniversario, con tutto ciò che sta portando con sé questa commemorazione, impone una narrazione che tenga conto dei fatti accaduti, delle ripercussioni, di ciò che è rimasto nei sopravvissuti e nelle future generazioni.
La striscia di sangue è lunga e arriva a tutti noi.
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