Mostre Palazzo Reale: de Chirico a Milano attraverso cento capolavori

De Chirico
Dal 25 settembre 2019 al 19 gennaio 2020
a cura di Luca Massimo Barbero
Milano, Palazzo Reale
Piazza del Duomo 12
20122, Milano



Viviamo in un mondo fantasmico
con il quale entriamo gradatemene in dimestichezza
(G. de Chirico, 1918)

De Chirico, pittore accurato, prende in prestito dal sogno l’esattezza dell’inesattezza,
l’uso del vero per promuovere il falso
(J. Cocteau, Il mistero laico, 1928)

Apre al pubblico il 25 settembre la grande mostra su Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) che attraverso un centinaio circa di capolavori ricostruisce l’irripetibile carriera del pictor optimus.
Le sale di Palazzo Reale a Milano, a distanza di quasi cinquant’anni dalla personale del 1970, tornano a ospitare l’opera di de Chirico in una straordinaria retrospettiva curata da Luca Massimo Barbero, promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, da Palazzo Reale, da Marsilio e da Electa, in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico e Barcor17. Un percorso espositivo fatto di confronti inediti e accostamenti irripetibili che svelano il fantasmico mondo di una delle più complesse figure artistiche del XX secolo. L’esposizione offre la chiave d’accesso a una pittura ermetica che affonda le sue radici nella Grecia dell’infanzia, matura nella Parigi delle avanguardie, dà vita alla Metafisica che strega i surrealisti e conquista Andy Warhol e, infine, getta scompiglio con le sue irriverenti quanto ironiche rivisitazioni del Barocco.

Il cospicuo corpus di opere in mostra proviene da importanti musei internazionali tra i quali la Tate Modern di Londra, il Metropolitan Museum di New York, il Centre Pompidou e il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea (GNAM) di Roma, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, The Menil Collection di Huston e il MAC USP di San Paolo in Brasile. Numerose sono anche le istituzioni milanesi: il Museo del Novecento, la Casa Museo Boschi di Stefano, la Pinacoteca di Brera e Villa Necchi Campiglio.

Suddivisa in otto sale, l’esposizione procede per temi pensati secondo accostamenti inediti e confronti originali come in una catena di reazioni visive che, come scriveva de Chirico nel 1918, rincorrono “il demone in ogni cosa […] l’occhio in ogni cosa [perché] Siamo esploratori pronti per altre partenze”.

Percorso della Mostra

Giorgio de Chirico torna a Milano, in quegli stessi spazi di Palazzo Reale che avevano ospitato la sua prima retrospettiva italiana nel 1970. È il ritorno di un de Chirico diverso che, attraverso confronti e associazioni inedite, si presenta alle nuove generazioni e al contempo si rivela in una veste differente a coloro che già conoscono la sua opera. I dipinti non seguono pedissequamente un percorso cronologico: come le immagini di un libro, il racconto si dipana nella consequenzialità di un ragionamento visivo che spesso sfugge alle dinamiche della logica.

In particolare, la mostra intende smontare il granitico binomio «de Chirico - Grande Metafisico» con alcune sale dedicate alla produzione meno nota, quella della sontuosità pittorica degli anni venti e trenta che irrita spesso la critica ufficiale e scontenta i suoi mercanti.

De Chirico porta all’evidenza un metamondo abitato dai pensieri dei filosofi, dalla condizione dei poeti moderni; quella Stimmung di cui parla e scrive sovente e che è la base necessaria alla creazione dell’enigma. Le intuizioni dechirichiane sono straordinarie al punto che, nell’ottobre 1913, Guillaume Apollinaire lo definisce: «[...] il pittore più sorprendente della giovane generazione». Nasce così una mitologia attorno al giovane artista che con gli anni sarà nutrita più da feroci attacchi che da lodi, in un dibattito giocato su testate internazionali, e che creerà un vero «caso de Chirico», fino al culmine di una causa contro la Biennale di Venezia nel 1948.

Anno emblematico in cui lo stesso Picasso ne prende le difese, scrivendo che: «[...] de Chirico ha rinnegato tutte le avanguardie per ritornare ai pittori classici. Ne ha tutti i diritti».
Incurante dei giudizi più duri, egli persegue la strada di una pittura figurativa resa con una tecnica antica, forte di un’ironia che caratterizza ogni ambito della sua esistenza, giungendo a una produzione neobarocca che culmina con gli autoritratti in costume del Seicento: opere distanti da qualsivoglia corrente o influenza coeva e che egli presenta perentoriamente persino alla sua personale alla Biennale di Venezia del 1956.
La mostra chiude con una sala dedicata alla neometafisica, summa del pensiero dechirichiano rispetto a un processo di produzione di repliche – che aveva già avuto inizio negli anni venti – e che si rivela in tutta la sua forza concettuale.

Sala 1
I dipinti in questa sala fanno emergere l’unicità della vicenda dechirichiana: la nascita in Grecia da un padre ingegnere e una madre dal carattere forte che accompagnerà da vicino la formazione e gli spostamenti dei due fratelli, in un costante errare, che diverrà uno dei temi principe della poetica di de Chirico. La sua costante condizione di sradicamento gli permette di tenere insieme tutte le differenti provenienze, di assommare l’intera civiltà mediterranea, colta e letteraria, le sue duplici radici italiane ed elleniche con la cultura tedesca di fine Ottocento. Le opere rivelano dunque le fonti visive di de Chirico e al contempo ne raccontano – se correttamente interrogate – la vicenda biografica. L’artista fabbrica una vera e propria mitologia familiare che prende le mosse da una Grecia che è ancora un protettorato tedesco, dalla frequentazione di Atene e poi di una Monaco di Baviera intrisa di cultura tardo ottocentesca: crea un universo di immagini che appartengono a un primordiale di propria invenzione e che si traduce visivamente in una pittura del mistero, di un mondo insondabile, ravvisabile nella Lotta di centauri o nel Centauro morente (entrambi del 1909), in cui la figura mitologica riversa a terra riecheggia la prematura scomparsa del padre dell’artista. Come in un dipinto del Rinascimento, de Chirico va letto attraverso una chiave simbolica che riporta sovente a un rimando biografico: in quest’ottica, anche i due giovani di spalle della Partenza degli Argonauti (1909) sono facilmente identificabili con i fratelli Andrea e Giorgio, che sotto l’egida della dea Atena lasciano la Grecia per affrontare il proprio destino.
L’autoritratto ha un’altissima incidenza nel corpus dell’intera produzione dechirichiana. Esso è certamente un’operazione narcisistica ma è anche – per sua stessa ammissione – un esercizio pittorico su un soggetto molto prossimo, se stesso, perché «l’uomo conosce meglio d’ogni altra cosa il proprio corpo […] che gli è più vicino e più caro» (Giorgio de Chirico): dagli esordi, lo specchio, l’io o l’ego, la pittura. L’Autoritratto del 1911 è il frutto della precoce lettura di Ecce Homo di Nietzsche, evidente sia dal senso dell’enigma evocato dall’iscrizione sia dalla posa sognante che riprende in modo palmare uno dei ritratti fotografici più celebri del filosofo tedesco. Nello stesso anno – quasi fosse un pendant – de Chirico realizza il Ritratto della madre, dove riprende l’impostazione di una finestra che si apre su un fondale che non ha alcun rimando naturalistico, amplificando dunque l’introspezione psicologica dei volti ma anticipando quello che sarà uno dei suoi grandi temi: il dentro e il fuori di una stanza, il rapporto tra il contenitore e lo spicchio di un esterno. L’enigma passa invece per il paesaggio di fondo nell’Autoritratto del 1912-1913, realizzato nel pieno degli anni parigini quando l’artista ventitreenne sta sviluppando un meccanismo dove il mistero della Percorso della mostra piazza del cielo irreale e della misteriosa torre servono quasi come nel Rinascimento a rendere l’artista un personaggio sempre atteggiato.
Molti anni più tardi de Chirico ritrae nuovamente la madre, che intimamente i figli chiamavano «centauressa» (Ritratto dell’artista con la madre, 1919) ormai invecchiata, con i capelli bianchi, in una posa austera e antica mentre sullo sfondo questa volta inserisce il suo stesso Autoritratto del 1911: un gioco di rimandi e di specchi carico di valenze psicologiche e al contempo una riflessione sull’evoluzione della sua pittura. La scoperta dell’architettura di Torino nel 1911 – città che stregò anche Nietzsche e dove de Chirico torna per qualche giorno nella primavera del 1912 – assieme alla lettura del filosofo tedesco, nonché alla frequentazione di Parigi e la volontà di dipingere qualcosa che desse «[…] delle sensazioni che non si conoscevano prima», sono i fondamenti per l’elaborazione di quella straordinaria ideazione iconografica che sono le Piazze d’Italia. «Il paesaggio, chiuso nell’arcata del portico, come nel quadrato o nel rettangolo della finestra, acquista maggior valore metafisico, poiché si solidifica e viene isolato dallo spazio che lo circonda. L’architettura completa la natura. Fu questo un progresso dell’intelletto umano nel campo delle scoperte metafisiche».
Sono invenzioni di scorci urbani che tengono conto d’intuizioni visive, quasi delle rivelazioni poetiche, che pur ripetendo un certo schema – il porticato laterale, la stazione di fondo, il treno in corsa all’orizzonte, la torre, il proiettarsi netto delle ombre, l’assenza di presenze umane, il monumento come unico abitante della piazza – evolvono verso un’accentuazione dei caratteri più inquietanti. Immerse in un silenzio assordante, le piazze dechirichiane sono pervase da un senso di mistero, un enigma insondabile; capolavori senza precedenti, privi d’aria, capaci al massimo di uno sbuffo di fumo e che toccano il senso profondo delle cose. La sospensione del tempo diviene persino suspense per qualcosa che sta per accadere sotto una luce accecante dove le ombre si fanno presenza fisica, perché del resto «ci sono molti più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina sotto il sole che in tutte le religioni passate, presenti e future». La piazza è trattata come una scena o una scatola nella quale gli elementi dell’arredo urbano sono posti come degli oggetti, in una prospettiva che da lì e per sempre diventerà dechirichiana, costruita su un orizzonte nitido e una luce innaturale che definisce con nettezza i contorni, al punto da fare di de Chirico un antesignano dell’architettura postmoderna.

Sala 2
Nelle sue Memorie de Chirico ricorda l’arrivo a Parigi la sera del 14 luglio del 1911: lo accoglie una città nel pieno dei festeggiamenti per la presa della Bastiglia. Qui, dopo un breve soggiorno a Vichy, per riprendersi dalla crisi fisica e spirituale che accompagna quasi ogni suo spostamento «Mi rimisi al lavoro e ripresi il filo delle mie ispirazioni di origine nietzschiana». I titoli delle sue prime opere sono l’emblema di questa filiazione filosofica, di «quella poesia eccezionale che avevo scoperto nei libri di Nietzsche». Nel suo studio di rue Campagne-Première egli scorge «[...] i primi fantasmi d’un’arte più completa, più profonda, più complicata e, per dirlo in una parola […] più metafisica». Nella pittura di de Chirico i soggetti gli si rivelano inaspettati, rebus visivi con i quali ottiene l’attenzione del pubblico e della critica parigina: tra i sostenitori della prima ora può contare su Picasso, sul poeta Guillaume Apollinaire nonché sul mercante d’arte Paul Guillaume.
Tra il suo atelier, la frequentazione di mostre e musei e i sabati letterari da Apollinaire, nascono i capolavori del 1913: nella Surprise – dal formato del tutto inconsueto – nell’Incertezza del poeta o nell’Ariadne – straordinario capolavoro del Metropolitan di New York – l’enigma nasce dal senso di spaesamento dovuto alla creazione e alla dislocazione di oggetti che creano un’illogicità sognante. Pur giovanissimo de Chirico è già uno dei protagonisti più originali della pittura in Francia, e quindi, in quel momento, internazionale.
La Metafisica è l’unico movimento parallelo, e veramente diverso, dal Cubismo: de Chirico è da un lato un deraciné e dall’altro non appartiene a nessuna delle correnti dell’epoca, vive in una Parigi dell’avanguardia e si forma una propria avanguardia che è proprio la Metafisica. In questi anni fa la sua comparsa anche uno dei temi più fortunati e originali, quel manichino che talvolta ha le sembianze dell’astronomo – The friend’s unrest or The astronomer (L’inquiétude de l’amie ou L’astronome), 1915 –, un essere dalle fattezze inumane ma con capacità cognitive.

Sala 3
Gli anni ferraresi (1915-1919) sarebbero stati ricordati dal fratello Andrea come una felice fatalità: i due de Chirico si ritrovano in quella città di «solitaria e di geometrica bellezza […] una delle città più belle d’Italia [che] m’ispirò nel lato metafisico nel quale lavoravo allora». A Ferrara de Chirico ufficializza le sue ricerche pittoriche degli ultimi anni sotto l’etichetta di Metafisica, quella straordinaria invenzione che Francesco Arcangeli, nel catalogo della Biennale del 1948, consacrerà internazionalmente come «[…] il più radicale mutamento di rotta del gusto europeo dall’impressionismo in poi». Ferrara del resto è la città degli Este che accolsero a corte due artisti altrettanto visionari come Ercole de’ Roberti e Cosmè Tura; nonché città dell’infervorato Savonarola. Una città nella quale la pazzia è di casa a causa della presenza di colture intensive di canapa. De Chirico è sedotto da questa follia dilagante – trascorre alcuni mesi alla Villa del Seminario, che è peraltro un ospedale per malattie nervose – e ne dà forma visiva nelle costruzioni meravigliose che
hanno la figura di vedute costruite, pensate e dipinte al limite della perfezione claustrofobica.
Qui nascono capolavori come il Pomeriggio soave o Il saluto dell’amico lontano nel quale la prospettiva, completamente ribaltata quanto le sue ombre, è al servizio di un montaggio di quinte e di vassoi spaziali, di cavalletti ci appare come un meccano che esclude l’esterno.
Il Castello Estense, le grandi vie, il Palazzo dei Diamanti diventano un set di mistero e una costruzione quasi ossessiva d’interni. Queste squadre di legno, scatole occluse, agglomerati di cavalletti, girandole e biscotti anticipano alcune soluzioni e alcuni meccanismi del Surrealismo.

Sala 4
Dopo il momento ferrarese, de Chirico è considerato il più visionario, il più amato e il più originale pittore della nuova generazione e al contempo, l’inarrestabile e il repentino abbandono della pittura metafisica, lo fa diventare uno degli artisti più detestati dalla critica italiana. E questo accade proprio dal 1920 con questa nuova pittura, improvvisamente romantica, frutto di una dichiarata folgorazione. La critica non ha esitato a riconoscere un’inflessione romantica in questa fase dechirichiana: un «romanticismo» inteso «[...] nel senso più vasto […] quello dell’uomo portato per inclinazione alla scoperta e alla ricerca». È un passaggio nodale in cui de Chirico cambia completamente il senso della pittura ricorrendo a temi apparentemente classici che mantengono però al contempo un senso di mistero e uno spirito d’invenzione anti-graziosa che lo differenzia da qualsiasi altro artista degli anni venti. Il de Chirico degli anni venti ha già vissuto a Parigi, ha concretizzato le sue ricerche sotto l’etichetta di «metafisica» e le ha dato forma teorica fin dal primo numero di «Valori Plastici» (1918): la ripresa di formule arcaiche, indiscutibili, legate al primo Rinascimento, promossa dalla rivista di Mario Broglio, era in realtà già prassi nell’opera dechirichiana. Egli anzi, nel 1919, mette in guardia dagli artisti facilmente e superficialmente ritornanti, che «[…] non possono rivalersi della scusa dell’artefice primitivo: dell’elleno raschiatore di Xoana o del pittore trecentista. Il caso dei pentiti di oggi è alquanto tragico». Dopo la sua personale romana alla Casa Bragaglia (1919) de Chirico è già oltre la metafisica e si concentra piuttosto sulla sua affermazione come pictor optimus, ovvero sulla qualità pittorica, un’urgenza che ha ora la precedenza rispetto alla metafora biografica o all’incoerenza visiva. Con queste premesse, uno dei soggetti principe diviene inevitabilmente il tema per eccellenza della pittura, ovvero la figura umana, che l’artista tratta ancora una volta con un approccio statuario e, persino il suo Autoritratto del 1924 si fa di ghiaccio. Anche dunque nei paesaggi più classici, apparentemente legati a Nicolas Poussin e Claude Lorrain de Chirico continua
a diffondere come una sorta di mistero il suo senso di attimo sospeso, infondo quella contrazione del tempo che porta ogni suo dipinto in una immaginaria teca metafisica. Un percorso dunque che parte con il nudo dell’Ulisse (1921-1922) e con il corpo statuario di Lucrezia (1922), per arrivare alla secchezza lignea di Oreste (Oreste ed Elettra, 1923) e chiudere, ancora una volta, su se stesso, con l’Autoritratto «di ghiaccio» del 1924.

Sala 5
Persino prima degli anni ferraresi, de Chirico introduce nella sua pittura la figura del manichino, inteso come un ibrido, come un robotico abitante del futuro e appunto di quel non tempo metafisico che, non a caso, s’ammanta anche di un aggettivo importante: “inquietante”. Negli anni venti, assieme alla grande pittura romantica de Chirico dimostra una sorta di nostalgia per i due grandi temi della sua pittura precedente: il manichino e la statua che qui s’incontrano.
L’artista attribuisce alle sue creature emozioni e atteggiamenti umani: è un abbraccio commosso e commovente quello tra il ritornante per eccellenza, il figlio-manichino, e il padre-statua (Il figliol prodigo, 1922) mentre è l’abbraccio di chi parte per sempre quello tra l’automa Ettore e la sua Andromaca (Ettore e Andromaca, 1924). I manichini dechirichiani sono esseri pensanti che hanno bisogni umani: siedono su un tavolato di legno di fronte al mare (Manichini in riva al mare, 1926), sono filosofi e archeologi, talvolta misteriosi, spesso accoppiati e accovacciati in una posizione che de Chirico desume sia dalle statue degli apostoli delle cattedrali gotiche sia dal suo grande amore per gli etruschi, sempre raffigurando un essere sospeso tra la vita e la morte. Qualche anno dopo, nel 1929, in Ebdòmero, de Chirico avrebbe descritto puntualmente quegli archeologi incuriositi che «Con gli occhi fissi a terra, le mani aperte posate sulle ginocchia piegate, i gomiti in fuori, i sette membri della famiglia, come se fossero seduti sopra invisibili sgabelli, guardavano con occhi biancastri. Ma nessuno si muoveva». Fa eccezione, per la posizione, l’Archeologo del 1927, che conferma quella sproporzione tra arti superiori e inferiori atta ad accentuare il senso di paradossale monumentalità della figura: il corpo definito con una scrupolosa e stupefacente industria coloristica, scopre propilei e colonne mozzate, rovine di templi pagani, motivi ornamentali diversi, divenuti materia per una sorta di illuminazione nostalgica e metafisica. Indipendentemente dai soggetti e da come siano «sistemati» nell’impalcatura dechirichiana, che siano in riva al mare con una prospettiva svettante, o chiusi nello spazio angusto di una stanza, o che siano abbracciati di fronte a un paesaggio, permane quella dimensione claustrofobica che è elemento necessario alla creazione del mistero di queste stanze.
Per il suo completo disinteresse, se non per la pittura e la fama, per il suo cinismo canzonatorio e l’ironia caustica nei confronti della politica, della vita e del reale de Chirico vive sospeso anche personalmente in un non-mondo, osteggiato dalla critica ufficiale italiana per essere poi, decenni dopo, incolpato di una connivenza imperdonabile con il ventennio fascista. L’alterità di de Chirico e la sua dimensione politica sono completamente altre, bastino i dipinti di questa sala per comprendere la sua posizione distantissima da ogni creazione contemporanea della pittura italiana, dalla linea estetica e politica dell’arte ufficiale e soprattutto dal mito novecentesco sarfattiano. De Chirico con disinteresse e tattica partecipa a tutto ma non appartiene a nessuno, è al contempo un isolato e un protagonista e il suo mondo è il mondo del mito. Se riprende la prosopopea della romanitas è per smontarla, come letteralmente si smonterebbe un giocattolo.
I trofei dechirichiani sono infatti agglomerati verticali di scatole, girandole, calchi, mobilio, cavalli a dondolo e copricapi che si ergono come «costruzioni che pigliavano la forma di montagne poiché come le montagne erano nate sotto l’azione d’un fuoco interno […] esse attestavano col loro equilibrio tormentato la spinta ardente che aveva provocato il loro apparire» (Waldemar George, 1928); da qui la scelta cromatica accesa operata da de Chirico in contrasto con gli sfondi, siano essi stanze o viste a volo d’uccello su vallate popolate da colonne e templi. 
Il Pericle dechirichiano (1925) è la profanazione della storia antica: l’eroe ha perduto ogni virilità del soldato e dello statista ateniese, non indossa una corazza ma piuttosto una sorta di canottiera a fantasia su un corpo che non ha nulla della fisicità del guerriero ma è liscio e gessoso quanto un manichino. La pittura di de Chirico di questi anni è il frutto di una visione, che in alcuni casi tocca l’allucinazione: è un invito a mettere da parte la razionalità. Nella dissacrazione del corpo dell’eroe ateniese de Chirico sta già anticipando quanto accadrà nel 1929 – nella sala successiva – con gli scontri tra gladiatori, anch’essi spogliati di ogni epicità e ridotti a figurine di gomma fusa, distanti da ogni possibile verità anatomica.

Sala 6
L’analisi del nudo, tema principe dell’arte di tutti i tempi, assume nella seconda metà degli anni venti
proporzioni monumentali: de Chirico è però distante dal genere di monumentalismo di Novecento, quanto dalle rotondità del Picasso classico, spesso chiamato in causa, ma è ancora una volta il frutto di un’allucinazione psichedelica. Le sue Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica) (1927) vivono una dimensione onirica sia per i toni artificiali sia per la ricercata sproporzione di quei corpi giunonici, costretti in uno spazio tanto angusto quanto connotato architettonicamente. Nelle stanze, che potremmo definire scatole, de Chirico stipa interi paesaggi: templi arroccati di fronte al mare (Tempio in una stanza, 1926) o affacciati al letto di un fiume (Tempio greco, 1928) con veri e propri pini marittimi che spuntano come colonne naturali dal pavimento in una stanza inondata di luce (Ma chambre dans le midi, 1927). Le stanze di de Chirico «imprigionano» persino i cavalli, quegli stessi che, privi di occhi e dunque ciechi – come lo era Omero, il poeta per eccellenza – corrono liberi lungo la spiaggia. Tema caro all’artista sia per l’immediato rimando mitologico sia per il legame con la pazzia di Nietzsche, che manifestò la sua follia proprio abbracciando un cavallo, i cavalli dechirichiani si muovono in un ambiente lunare; de Chirico li immagina «tra i tamburi delle colonne crollate ove, di sera, quando la piazza è deserta, le grandi cavalle dissenteriche vengono a brucare avidamente le tenere camomille che fioriscono all’ombra delle gloriose rovine».

Sala 7
«La sera circondato dai suoi amici Ebdòmero assistette solo all’ultima parte dello spettacolo: ai quadri viventi, e capì tutto. L’enigma di quell’ineffabile gruppo di guerrieri, di pugili, difficili a definirsi e che formavano in un angolo della scena un blocco policromo e immobile nei loro gesti di attacco e di difesa, […] una cosa tanto rara e profonda lo turbò». Tra il 1928 e il 1929 il gallerista e collezionista parigino Léonce Rosenberg incarica alcuni artisti di decorare gli ambienti della propria casa parigina: a de Chirico viene assegnata la sala da pranzo per la quale realizza una serie di tele sul tema dei gladiatori. Lontani da ogni rimando epico, i lottatori dechirichiani hanno perduto ogni possibile violenza e credibilità; per dirlo con le parole di Ebdòmero lottano «senza convinzione». Sono grovigli umani volutamente sproporzionati e spesso costretti in uno spazio angusto nel quale combattono in pose statiche, prossime alle illustrazioni dei manuali di lotta libera. Sono eroi dai corpi dinoccolati, quasi snodabili, stirati anche attraverso l’uso di una pittura filamentosa che de Chirico mette a punto dall’attenta osservazione di Gaetano Previati. Sono figure tornite con modalità antinaturalistiche e deformate come giocattoli di gomma, tanto terribili quanto divertenti, nulla di più lontano dal monumentalismo fascista di quegli anni a cui sono stati per lungo tempo associati. Come avrebbe scritto con sensibilità poetica, dieci anni più tardi Carlo Emilio Gadda, essi sono «[...] eroi [che] vorrebbero inveire contro gli antagonisti eroi, e schinieri, usberghi, scudi lance e criniti cimieri passano pronti alla rissa». La Corsa di quadrighe (1928) è un lungo e grandioso fregio nel quale le bighe si scontrano, vanno in pezzi e lasciano esanime a terra una poltiglia corallina che, solo in un secondo momento, s’identifica come uno dei cavalli della gara. Anche nei picchi di drammaticità prevale però sempre l’elemento ludico, il senso parodistico. De Chirico vive il suo classicismo come favola oppiacea e una scatola dei giocattoli.
La serie dei Bagni misteriosi è uno dei cicli più noti della produzione di de Chirico, la cui elaborazione nasce a partire dalla prima metà dagli anni trenta con le dieci litografie realizzate per Mythologie di Jean Cocteau nelle quali già facevano la loro comparsa alcune immagini come le cabine disegnate con tratto infantile, la compresenza di personaggi vestiti e nudi o le piscine collegate da canali sinuosi. Il tema nasce da un’ennesima visione dechirichiana che si manifesta in una stanza, ovvero una figura che affoga in un parquet e che riporta l’artista ad alcune ossessioni dell’infanzia: «[…] una scaletta di legno simile a quelle delle cabine negli stabilimenti balneari, e da cui si vedono i primi gradini che scendono nell’acqua… Riandando le memorie della mia infanzia ricordo che le scalette delle cabine balneari mi turbavano sempre e mi davano un gran senso di sgomento. Quei pochi gradini di legno coperti da alghe e di muffe e immersi a meno d’un metro sott’acqua mi sembrava dovessero scendere […] fino nel cuore delle tenebre oceaniche». Proprio per la loro vena surreale e in fondo ancora metafisica, i Bagni misteriosi sono tra le opere maggiormente apprezzate anche alla Quadriennale romana del 1935, dove al contrario i dipinti più smaccatamente figurativi e «classici» – come Bagnanti sopra una spiaggia della stanza successiva – furono duramente attaccati. Invenzione straordinaria perché cristallizza il tema dell’immerso e dell’eroe che ora è una serie immediatamente amata dagli scrittori e dagli architetti così tipicizzante da diventare una grande fontana realizzata a Milano nei giardini di Parco Sempione in occasione della Triennale del 1973.

Sala 8
Quando il “mito” de Chirico è ormai universalmente riconosciuto, egli sconvolge tutti i parametri di gusto e s’immerge in un realismo impossibile, talvolta paradossale, che la critica non gli perdona mentre il mercato, quanto i musei, gli riconoscono. È capace di creare un mondo antico e anacronistico, che nonostante sia fatto di una «felicissima armonia, degna di quella di certi Renoir» (Waldemar George, 1933) non riesce a scalfire la sua fama, de Chirico resta incastonato come una gemma metafisica. Con strenua volontà trascorre interi «[…] pomeriggi alla biblioteca Richelieu a cercare in vecchi trattati e in scritti sulla pittura, apparsi in epoche in cui si sapeva ancora dipingere» e che l’avrebbe portato a creare un nucleo importante di opere classiche, esposte alla Quadriennale romana del 1935 dove venne duramente attaccano. Persino un critico di respiro come Carlo Ludovico Ragghianti, utilizza l’aggettivo «ributtante» per il nucleo di dipinti presentati a Roma, tra i quali campeggia anche lo straordinario Autoritratto nello studio di Parigi (1934) nel quale alcuni elementi ricorrenti – l’interno, il calco in gesso o il cavalletto – sono trattati con un piglio quasi naturalistico. Il taglio degli abiti indossati nell’autoritratto lo datano con evidenza agli anni trenta, mentre è senza tempo il ritratto di Isabella Far stesa su una spiaggia come una Venere tizianesca (Bagnanti sopra una spiaggia, 1934). Si tratta di un’allegoria ancora prima che un ritratto e lo prova la replica di questo stesso dipinto nel 1945: dopo undici anni sua moglie non è affatto invecchiata mentre è completamente mutata l’ambientazione. La donna poggia ora su un drappo rosso mentre le bagnanti si muovono su un fondale boscoso. In questo frangente de Chirico dà priorità alla qualità tecnica della pittura: «Rendiamo chiaro una volta per sempre agli uomini che si interessano all’arte, che una pittura non può essere né sincera, né pura, né spirituale, essa può essere soltanto bene o male dipinta, avere del valore artistico o non averne, ed è precisamente la qualità della pittura che determina se un quadro è un’opera d’arte oppure un oggetto qualsiasi». Giorgio de Chirico, ora viaggiatore solitario nella pittura barocca, si mette letteralmente a nudo, cinquantacinquenne davanti allo specchio, in un Autoritratto (1943, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) irriverente al punto che nel 1949, all’occasione di una mostra alla Royal Academy di Londra, gli venne chiesto di aggiungere un «braghettone». Il quadro che egli reputa uno dei suoi capolavori è un paradosso sconvolgente, cupo e ancora una volta, senza tempo, minaccioso e ironico in un momento in cui la pittura internazionale aspirava ad altro. Non senza infatti una spessa dose d’ironia si mostra come torero agli inizi degli anni quaranta (Autoritratto in costume da torero, 1941-1942) e in seguito veste veri e propri costumi barocchi (Autoritratto in costume nero, 1948 e Autoritratto nel parco in costume del Seicento, 1959), dipinti completamente al di fuori di qualsiasi corrente, periodo o stile riconoscibile, delle mises en costumes, a cui però egli tiene e crede al punto di presentarli anche a mostre internazionali importanti come la Biennale di Venezia. All’occasione della personale veneziana del 1956 egli non esiterà a definirsi nel catalogo stesso della mostra come «[…] fenomeno unico in tutta la storia della pittura moderna […]. Artista nel senso più profondo della parola, indifferente a quanto si dice di lui, Giorgio de Chirico ha sempre seguito e ascoltato il suo dèmone, ha sempre giudicato e sempre giudica fatti e uomini del suo tempo, e anche d’altri tempi, secondo il suo personale criterio». Ancora una volta de Chirico fa polemica attraverso la sua pittura e le sue caustiche dichiarazioni. Solo recentemente una parte illuminata di pubblico ha incominciato a riguardare questi autoritratti barocchi come una messa
in scena del sé, una vera performance che ha ispirato artisti concettuali che del teatro del sé fanno pratica artistica contemporanea. Un anticonformismo che lo porta a dipingere nature morte (Corazze con cavaliere, 1940) di una sontuosità neobarocca e un Canal Grande a Venezia (1952) nel quale l’artificiosità cromatica e il liquefarsi della pennellata sono presaghe del destino stereotipato che attende la città lagunare. Per decenni, nel corso della sua carriera, de Chirico ha combattuto l’etichetta di Grande Metafisico: era stato del resto il creatore, unico, di quella straordinaria invenzione che, ancora nel 1948, Francesco Arcangeli ricordava come «[…] il più radicale mutamento di rotta del gusto europeo dall’impressionismo in poi». Negli anni sessanta, sparigliando nuovamente le carte, de Chirico torna di sua volontà alla pittura degli anni ferraresi, come se la metafisica fosse divenuta un marchio di fabbrica, replicabile dal suo stesso inventore. Ecco allora ritornare le Muse inquietanti, considerato il dipinto fondante della metafisica, nelle versioni degli anni cinquanta e sessanta che proprio nella loro serialità giustificherebbero la folgorazione che Andy Warhol ebbe nei confronti del maestro di Volos. Non è però solo una replica o una pigra e quasi levantina operazione di mercato: la neometafisica è portatrice sia di nuove invenzioni – i palcoscenici, i soli neri, i cavalieri elettrici – ma soprattutto è il ritorno di situazioni, impostazioni e soggetti che hanno però perso la dimensione angosciosa dell’enigma e brillano di una luce chiara e diffusa. Anche per questa nuova stagione della produzione dechirichiana le voci coeve di consenso non sono molte; tra queste emerge quella di Dino Buzzati, che proprio recensendo la mostra di Palazzo Reale del 1970 apprezza la freschezza d’invenzione della neometafisica e scrive: «I più recenti quadri, esposti nell’ultima sala non sono pedisseque ripetizioni di vecchi quadri metafisici comparsi negli anni scorsi. Si tratta di invenzioni genuine, inedite», al punto da divenire una fonte innegabile per gli artisti di generazioni successive, apparentemente molto distanti, da Andy Warhol a Francesco Vezzoli che gli riconosce di «essere stato eternamente e incessantemente fedele alle sue visioni metafisiche e verso la fine direi prescientemente postmoderne».
Giorgio de Chirico, il ritornante non cessa mai di creare misteri e di restituire all’oggi il suo straordinario mito.

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