La poetica di Fabio Geda nel suo ultimo libro: Una domenica, Einaudi


C'è un dolore di vuoti nell'aria senza gente e nei miei occhi creature vestite senza nudo. Le parole di Lorca risuonano nella mia mente dopo aver chiuso l'ultimo libro di Fabio Geda, Una domenica, Einaudi.
Di fronte al verso liberato dal pomposo giudizio della metrica classica e condotto verso le allucinazioni fantasmagoriche del surrealismo e le rocambolesche vicissitudini che hanno visto il poeta protagonista del viaggio dall’America latina alla grande mela passando per Parigi e Roma, non potevo non riconoscere la freschezza di una scrittura, stagliata sulla pagina tersa, incrinata talvolta da un dolore sotterraneo, accolto e allontanato, abbracciato e detestato dal poeta stesso, un’inquietudine, una sorta di ricerca fanatica di ciò che, di fatto, Lorca non è mai riuscito a possedere. Tra le pieghe delle sue poesie, il possesso è riscontrabile nel rapporto con New York, nel rapporto (doloroso e continuamente ricordato e rivissuto) con il compagno Emilio Aladrén, nel rapporto, burrascoso e solo a tratti sereno, con la poesia. Se è vero che i ricordi acuiscono il dolore che stritola il poeta è anche vero che il suo soggiorno a New York getta una nuova luce sulla sofferenza che diventa, nel tempo, la base della sua poetica.



Fabio Geda con Una domenica edito da Einaudi, ha risvegliato in me il ricordo della poetica di Lorca. La parola strappata, i silenzi paralizzati, l'iperrealismo narrativo di alcune ambientazioni che, ben presto, lascia lo spazio al simbolismo delle piccole cose quotidiane. Una quotidianità fatta di dolori e attese. E' nelle attese che si compie l'epifania della solitudine. Un uomo, rimasto vedovo da anni, prepara i piatti della tradizione piemontese in attesa della figlia che trascorrerà la domenica insieme al padre. Lui, per un giorno, potrà sentirsi nuovamente nonno e papà al tempo stesso, potrà dare un senso allo scorrere inevitabile del tempo, al lento e fatale erodersi delle emozioni che porta con sé l'ineluttabilità dell'invecchiamento e della morte.

L'imprevisto, al contempo determinante e crudele, non permette il riavvicinamento dei componenti (di una parte) della famiglia. Il tempo porta via tutte le cose. E' con questo pensiero che il protagonista inizia a vagare per le vie di Torino. Lungo Po Antonelli, i suoi colori, i suoi profumi. Lui solo, in una città svuotata, in una domenica qualunque, all'ora del pranzo.

La narrazione si allarga e abbraccia una storia fatta di relazioni, ricordi, aneddoti familiari. Parallelamente lo spazio si restringe e il lettore si trova a stretto contatto con il microcosmo del protagonista. Entrano in scena Elena, una donna che cerca di essere una buona madre, e il figlio Gaston. 

La poetica di Geda è l'occasione per riflettere sui rapporti famigliari, specie a distanza di anni, "quando raggiungi l'età che avevano i tuoi genitori al tempo in cui eri un bambino": il punto di vista della figlia, io narrante della storia, che accompagna il lettore ora alla scoperta dei sentimenti, a volte contrastanti, del padre, ora alla scoperta dei turbamenti della madre, si rivela un'angolazione privilegiata per conoscere non tanto i dettagli della storia quanto i sentimenti che si celano dietro agli eventi. 
Tra citazioni letterari e ambientazioni minimaliste, avanza quel turbinio di non detti e di silenzi, di sconfitte e di amari rimpianti, ma anche di vagheggiamenti su un passato che non torna (di nuovo è il tempo che si porta via tutto) ma dal quale i personaggi (e gli stessi lettori) possono attingere per abbeverarsi alla fonte della speranza.

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