Digital Journalism. Quale futuro e quali spazi per i giovani giornalisti

Editoria e Giornalismo Digitale


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Settimanale online cerca collaboratori per ampliamento della redazione per le sezioni attualità, politica, esteri, economia, cultura, tecnologie e webtv. Si richiede conoscenza delle tematiche trattate dalla testata, predisposizione all’analisi dei fatti e all’esposizione con un linguaggio chiaro ed efficace. Ambiente giovane e dinamico. La collaborazione si intende gratuita.

Per start-up giovane e in fase di sviluppo , cerchiamo collaboratori che possano occuparsi della gestione di alcune sezioni del magazine. Precisiamo che il magazine è in fase di start up e non prevediamo nell'immediato una forma di retribuzione ma solo a partire eventualmente da ottobre/novembre. Cerchiamo una persona con esperienza in ambito editoriale e soprattutto digitale. Massima professionalità. 

Per nuovo magazine di moda e lusso in fase di start-up cerchiamo una giovane giornalista professionista massimo 31/32 anni con ottime conoscenze della moda, del lusso e del life-style (arte,cinema,viaggi,design,etc) che abbia intenzione di guidare uno staff redazionale giovane. L'intento è quello di registrare la testata tra qualche mese e inserire la persona come direttore. Attualmente non c'è un compenso immediato ma chiediamo un investimento momentaneo di energie. 
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Quanti sono gli annunci di questo genere che si trovano sulla rete? Decine? Centinaia? Impossibile avere una stima precisa in quanto sono troppi. Lo sforzo che viene richiesto per svolgere queste mansioni non investe solo la sfera delle conoscenze e abilità personali, lo studio e l'acquisizione di quel bagaglio di esperienze che contraddistingue ognuno di noi e ciò che, negli anni, siamo diventati; quello che, ormai, viene richiesto è "un investimento momentaneo di energie" che non prevede alcuna retribuzione. Ecco, credo che il problema stia proprio nell'accostamento delle parole: investimento momentaneo di energie - nessuna retribuzione. Sta dilagando un pensiero comune, viziato e irrispettoso, che ci si possa nascondere dietro al progetto in "fase di start-up" per giustificare la mancata retribuzione, il mancato contratto di stage e, nei casi più eclatanti, il continuo afflusso di stagisti all'interno di redazioni in cui il numero di assunti a tempo indeterminato è pari a zero.

In una situazione come questa non è solo il codice giuridico ad essere infranto ma anche, e soprattutto, quello etico. Perchè le sviste, le incomprensioni, gli errori involontari, i "non lo sapevo" che si aggiungono, sarcastici, alla lunga lista di nefandezze creano degli ambienti lavorativi caotici, poco stimolanti, poco aperti al reale investimento, quello che punta sulle risorse qualificate, sul valore aggiunto, sulle idee innovative, ambienti poco attenti a contraddistinguersi dal rumore generale, ambienti, quindi, dove chi lavora deve dare tutto se stesso, investendo energie in un'attività che, a queste condizioni, non solo non crescerà in termini di qualità ma non apporterà nessun miglioramento personale negli stessi dipendenti, i quali saranno più sfiniti e sviliti di quando hanno iniziato a lavorare.

Durante Dig.it, il primo incontro nazionale dedicato al giornalismo digitale svoltosi a Firenze il 4 e il 5 luglio, Damiano Celestini ha proposto l'inserimento della voce "volontariato" nei portali di ricerca per il lavoro. "L'online in Italia è ancora oggi una zona d'ombra in cui gli editori pensano di poter fare di tutto. Vi basti prendere un portale per la ricerca di lavoro e tra le offerte vedere che quasi tutte non prevedono retribuzione. E il 90% (mi tengo basso) riguardano testate online o fantomatiche tali. Però ti diamo visibilità, dicono. Con la visibilità non ci pago le bollette. Sarò strano io". Credo che le parole di Celestini siano esplicative della situazione che stiamo vivendo in molti. 

Dare visibilità sembra richiamare un linguaggio, e quindi un mondo, che non rappresenta i giornalisti e futuri tali. Ed ecco che mi ritornano in mente le parole contenute nella lettera inviata al direttore di Repubblica, Ezio Mauro, da fotografi e videoreporter (presentata anch'essa a Dig.it): "quello che voi proponete come qualcosa a metà tra il gioco e il talent show, c'è chi lo fa ogni giorno, a volte da molto prima dell'alba fino a molto dopo il tramonto, e che non lo fa per essere giudicato da un big (per continuare con il linguaggio dei talent) e nemmeno per vedere il proprio nome su un giornale, ma per pagare un affitto, per pagarsi il cibo… insomma per vivere e, soprattutto… per informare".

Offrire visibilità anziché un contratto, contributi, ferie, permessi brevi e lunghi, l'insieme dei diritti che distinguono il lavoro dignitoso prerogativa di un Paese che vuole far parte delle potenze più industrializzate del mondo, è un'oltraggio alla professionalità, alla volontà, all'entusiasmo, all'impegno e anche allo studio, alle energie che, da anni, impegnamo per fare questo mestiere, per diventare, ogni giorno, migliori, per imparare qualcosa in più perchè non ci possiamo permettere di fermarci e di sentirci arrivati. Mai.

Nel 2010 Jemima Kiss scriveva su The Guardian: "longer hours, more pressure, decreasing quality and less enjoyable work. Old media is a dark, dark place for journalism - at least that's the mood of many of the journalists who were interviewed for the annual Oriella digital journalism study". Nel nostro Paese si può parlare di aumento o abbassamento della qualità? O forse è meglio usare la parola, in un contesto come quello appena descritto, di mutamento della qualità? Non stiamo forse assistendo al passaggio da un'informazione elargita da pochi a un tipo di informazione libera e facilmente reperibile ma le cui fonti, spesso, non presentano delle fondamenta sicure? Sia chiaro, non c'è nessuna nostalgia nei confronti dell'informazione gestita da un gruppo ristretto di persone, tuttavia non posso neppure trovarmi schierata dalla parte di coloro che, seguendo la logica della visibilità, pubblicano notizie senza curare ciò che rappresenta l'anima della notizia stessa: le fonti. 

Sono le stesse redazioni (non tutte per fortuna) che, pur di arrivare prime, elargiscono con troppa generosità informazioni dove la cura e la precisione della fonte lasciano il posto allo scoop e al becero pettegolezzo. Gli stessi caporedattori insistono perchè vengano prodotte notizie volte non tanto ad informare quanto ad attirare un numero sempre maggiore di visitatori unici sulle pagine della loro testata sperando in una considerevole quantità di click.

Come può quindi un giovane giornalista distinguersi, prendendo le distanze da questo tipo di redazioni? Giuseppe Granieri ha provato a chiarire la questione nell'articolo 5 cose che un giornalista moderno deve imparare, dichiarando che "stanno cambiando i tempi, sta cambiando la professione, sta cambiando il modo in cui la gente accede alle notizie. E questo obbliga i giornalisti a cambiare, ad aggiornare molto le competenze, le skill necessarie per continuare a essere competitivi e consapevoli nel proprio lavoro. Il mestiere così come lo conoscevamo serve sempre. È sempre molto importante. Ma non basta più. A mio modo di vedere ci sono almeno 5 aree su cui la competenza del giornalista, oggi, deve aggiornarsi ed entrare in apprendimento continuo".

In Gli asset del giornalismo moderno, Granieri sottolinea l'importanza, per il giornalista digitale, di interagire, avere dimestichezza e maneggiare senza problema alcuno l’information overload e i social media: "il giornalista oggi deve essere capace di porsi qualche passo avanti rispetto al suo pubblico nel dargli una comprensione (io preferirei «visione») di un percorso nella complessità informativa".

Essere in uno stato di apprendimento continuo implica, come dicevo prima, un atteggiamento vigile che non permette di sentirsi arrivati in nessuna situazione. Resta comunque aperta, almeno allo stato attuale, la questione sul futuro dei giovani giornalisti, sullo spazio che, il frastagliato giornalismo digitale, relega a chi vuole intraprendere questo mestiere.


8 commenti:

  1. Quoto la voce "volontariato", tanto più quando l'esperienza apportata è la propria e non quella maturata sul lavoro, nel caso di giovani agli esordi. Purtroppo questa cosa avviene in quasi tutti gli ambiti che potrei definire " creativi", non è il termine più adatto ma è per identificare quei lavori che non si basano su competenze matematiche e che invece si basano anche su capacità personali non oggettivamente qualificabili.

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    1. Il fatto che il lavoro "creativo" (o intellettuale) non venga retribuito lo trovo abbastanza grave perché porta alla stagnazione di una professione che dovrebbero invece essere in costante rinnovamento. Chi vuole fare questo mestiere deve essere in apprendimento continuo (come dice Granieri) ma a questo bisognerebbe accostare degli ambienti lavorativi altrettanto rinnovabili e aperti al confronto.

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  2. Le questioni affrontate in quel post sono tristemente note e piuttosto complesse: per quanto mi riguarda la critica (distruttiva e non) è una fase fondamentale di quel percorso labirintico, ostico e spesso deludente che porta a lavorare nel campo del giornalismo (e non solo in quello). Ma si tratta di una fase. Poi bisogna pensare a cosa si vuole e a cosa non si vuole. Nessuno può impedire ad una persona di creare un sito internet, chiamarlo “start up” e promettere visibilità e nulla più, e nessuno ci obbliga ad accettare un lavoro gratuito per poter avere la visibilità e nulla più. Di sicuro c’è che la maggior parte delle persone che riescono a trovare spazio grazie alla mancanza di regole e “gabbie” che contraddistingue internet, non potrebbero mai riuscire a farsi avanti all’interno di un mercato del lavoro rigido e severo: ecco perché spesso (ovviamente esistono delle eccezioni) si pone il problema della qualità, perché non esiste un padrone, un finanziatore, una figura posta a controllare, il cui obiettivo sia quello di verificare la bontà del prodotto. E se d’altro canto vogliamo essere liberi di ascoltare la musica che vogliamo senza pagare, guardare una fotografia, magari scaricarla e stamparcela a costo zero, etc, dobbiamo anche pensare che allo stesso modo qualcuno vorrà essere libero di accedere gratuitamente ai siti di informazione senza andare troppo per il sottile. Certo che, finché la qualità media dei siti di informazione rimarrà ai livelli attuali, non esisterà una ragione per iniziare a pagare.

    Poi è sempre una questione di punti di vista: per alcuni lavorare gratis si chiama “spirito di abnegazione” ( magari si beccano anche i complimenti perché c’hanno la passione vera e bruciante, la determinazione), per dire. Vorrei avere una visione più chiara del tutto, o delle soluzioni, ma purtroppo non è così. Penso che lavorare gratis sia sbagliato perché è come uno stigma, penso che sia fondamentale assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed essere consapevoli del fatto che ciò che vogliamo non ci verrà mai concesso: dobbiamo prendercelo, o lasciarlo lì dov’è.

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  3. Non sempre pensare a cosa si vuole e cosa non si vuole basta. Si deve pensare anche a cosa si può fare e cosa non si può fare. Una persona che deve mantenere una famiglia e un affitto vorrebbe tanto fare il giornalista magari, o lo scrittore, ma il "mercato" non glielo consente. Secondo me la situazione non è tanto complicata, basterebbe che queste tante aziende offrissero degli stage reali o delle minime retribuzioni, tanto basterebbe a concludere il percorso da pubblicista. Ma purtroppo per la maggior parte delle persone che scrive su testate giornalistiche online non c'è retribuzione e molte volte non c'è neanche possibilità di firma, questo preclude anche di poter iniziare il percorso. Basterebbe poco, ma quasi nessuno ti offre una reale possibilità.
    Se vogliamo parlare di qualità, poi, questa purtroppo non conta. Le testate che si basano sulla rotazione di falsi stagisti producono contenuti di basso livello, siamo d'accordo, ma purtroppo la cosa non è di prioritaria importanza per loro. Puntano su altri concetti come "parole chiave", "seo", "uscire primi su google", "adwords", "adsense", insomma tutte cose che ti permettono di fare soldi tramite la pubblicità, tutti aspetti per cui la qualità non serve, ma è sufficiente il "click". Dopo il click l'obiettivo è già raggiunto, che poi il contenuto dica qualcosa di interessante o meno, non è importante. Quindi queste aziende guadagnano e non pagano la forza lavoro. Secondo me il problema esposto da Sara è ben più grave di quanto sembri, è al limite della legalità, per tanti aspetti.
    Infine non è neanche vero che gli italiano non vogliono pagare nulla per film, musica, ecc. iTunes è la piattoforma più diffusa al mondo e tutto costa (tranne qualche podcast) e francamente per la qualità che offre sono ben contento di pagare. Credo che se l'informazione fosse fatta veramente come si deve, la gente pagherebbe. Come avviene già per i giornali online (su mobile) come repubblica.it, stampa.it, ecc. che vantano centinaia di abbonamenti.
    Concludo con un ultimo pensiero: sono d'accordo con te che basterebbe non accettare un lavoro del genere per far morire questi annunci, ma allora voglio chiarezza, anche io voglio la parola "volontariato". La maggior parte degli annunci sono ingannevoli, promettono, danno false speranze e quasi mai mantengono, con il risultato che la gente, piena di illusioni, risponde, "fa un tentativo" e perde tempo (oppure credete ancora alla leggenda che vale cmq come esperienza perchè s'impara a scrivere? certo, s'impara a scrivere in una lingua comprensibile a un unico lettore: google bot).

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  4. @Ornella.B non è sempre vero che "Nessuno può impedire ad una persona di creare un sito internet, chiamarlo “start up” e promettere visibilità e nulla più" in quanto quando questa formula sfocia in dichiarazioni del tipo "non ti diamo retribuzione ma è comunque un'esperienza che vale per avere il tesserino da pubblicista" non solo la persona in questione ci sta letteralmente prendendo in giro ma sta anche andando contro la legge: avere degli stagisti, non registrati e che superano un certo numero a fronte di un numero di dipendenti pari a uno, massimo due e magari (anche questi ultimi) con un contratto a progetto significa andare contro la legge. L'azienda che necessita di uno stagista deve regolarizzarlo attraverso una formula idonea avvalendosi del proprio consulente del lavoro. Inoltre il numero degli stagisti non può essere a piacimento del titolare dell'azienda, redazione o giornale che sia perché ci sono regole molto precise, altrimenti al primo controllo della finanza si chiude. Quindi ognuno è libero di avviare un progetto ma non di infrangere la legge. Altrimenti, così facendo, diamo libertà allo sfruttamento di qualsiasi genere sulla base del "tanto siamo tutti liberi di aprire un'attività"...

    Anch'io come @nic, sono d'accordo con te nel dire che basterebbe non accettare questi lavori per far morire gli annunci. Purtroppo non è sempre così facile nel senso che se pochi riconoscono la truffa o l'inganno che si nasconde dietro, tanti giovani invece cadono nell'errore che ci si possa accontentare della "visibilità" sperando in una futura assunzione, di qualsiasi tipo, per avere il tesserino da pubblicista.

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  5. @Nic: Ci tengo a precisare che io stessa ho spesso messo alla berlina annunci stupidi o indecenti, che io stessa sono rimasta incastrata in questo orrendo meccanismo che ti obbliga a dare e non ti restituisce niente, etc. La mia vuole essere una considerazione di tipo diverso, non una difesa delle cacchiate che si trovano scritte in giro. Intanto, da pubblicista, ti dico che "iniziare" e "prendere il tesserino" è totalmente inutile se non hai modo di "continuare" e di "entrare in una redazione". Anzi, è proprio con la ghiotta esca del "cominciare" che molti entrano nel tunnel dello sfruttamento per non uscirne mai più. Ti dico anche che, per come la vedo io, gli stage seri ed i pagamenti "minimi" sarebbero una cosa santa, ma si tratta di roba per persone che vivono ancora con i genitori o possono permettersi di lavorare a costo (quasi) zero. Come hai detto tu, una persona che ha da mantenere la famiglia non fa il giornalista, a queste condizioni. Vorrebbe, ma non lo fa. Anche chi non ha figli e vorrebbe fare il giornalista, dovrebbe semplicemente non farlo se la condizione è lavorare gratis per anni. Dato che di stage realmente formativi o retribuiti sembrano essercene pochi, e dato che l'equo compenso è un miraggio lontano, ci si trova di fronte ad un bivio: lavorare a condizioni indegne o non lavorare? Chi si trova a fare questa scelta non ha nessuna colpa, eppure deve decidere. E dato che alla fine molti preferiscono optare per il lavoro non retribuito, è evidente che si tratta di una formula efficace, per quanto sbagliata ed esecrabile. A proposito di formula efficace, riguardo alla caccia al clic effettuata dai siti di informazione: a quanto pare anche questa funziona piuttosto bene, e dovremmo riflettere a riguardo.

    Certo, esiste chi paga per avere qualcosa, ma credo che comunque il numero delle persone che preferisce usufruire gratuitamente delle informazioni su internet sia leggermente più grande di quello delle persone che pagano.(Per la cronaca, l'app di Repubblica fino alla penultima versione è gratuita).
    Altrimenti le persone continuerebbero a comprare i giornali o (che, per quanto obsoleti e meno "pratici" dei link, sono rimasti indietro più per una questione economica che materiale, sempre secondo me) o a sottoscrivere decine di migliaia (e non centinaia) di abbonamenti; se invece tutti i siti di informazione chiedessero soldi, certamente le persone ci penserebbero un attimino in più per decidere se spenderli o meno, farebbero una scelta più ragionata. Poi potrebbero anche optare per la cosa qualitativamente peggiore (lo standard qualitativo di chi lavora nel mondo del giornalismo è talvolta leggermente diverso da quello del semplice lettore), ma tutti avrebbero modo di far parte di un mercato competitivo. E certo, anche io vorrei che tutti quegli annunci venissero inseriti alla voce "Volontariato", ma così non è e finché sarà così, bisogna denunciare questo tipo di annunci e agire per sé stessi (magari sperando che anche gli altri vengano informati), non reiterando comportamenti che si riveleranno nocivi per noi stessi nell'immediato futuro. Quindi, giusto per chiarire il mio pensiero, credo che ognuno debba provare ad agire da essere senziente e non da pedina, provando ad invertire questo rapporto di forza tra datore di lavoro e lavoratore. Ma è anche una questione di mentalità, e lì non si può mica fare una legge per cambiarla.

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  6. @Sara: Beh, hai citato la mia frase per intero quindi non lasciare da parte quel "nulla più" che voleva automaticamente escludere chi pubblica annunci promettendo il tesserino pur specificando che non vi sarà retribuzione! In questo caso è chiaro che si tratta di un messaggio irregolare. Ma, sempre a proposito di complessità, bisogna anche dirla tutta, ossia che il datore di lavoro che, andando contro la legge, non paga i collaboratori e poi fa prendere loro il tesserino, sta commettendo un reato insieme ai collaboratori! Dato che grazie ad alcune importanti sentenze il rischio di beccarsi una condanna per il reato di stampa clandestina è notevolmente diminuito, quella del tesserino non è più un'arma di ricatto, non è che solo i giornalisti possano scrivere. E trattandosi di lavoro gratis, tanto vale farlo per sé stessi attraverso un blog, no? Se poi vogliamo andare ancora più a fondo, esiste anche la libertà di denunciare le testate che operano questa messinscena (facciamo il 90% di quelle esistenti?) all'Ordine. E se si potessero iscrivere a questo benedetto Ordine solo quelli che sono stati davvero pagati, altro che settantamila, forse manco settecento ce ne sarebbero. Sul fatto che sia necessario mettere in guardia da annunci pericolosi sono più che d'accordo (altrimenti il mio blog non avrebbe senso d'esistere, per dire). Per quanto riguarda la libertà d'impresa, purtroppo succede esattamente quello che dici tu, anche in settori diversi (tanto per fare un esempio: hai presente quando una fabbrica chiude in Italia e spunta magicamente in Bangladesh, in Marocco o in Romani? Bene, succede perché l'imprenditore è libero di sfruttare manodopera a costi molto più bassi. Per noi sarebbe illegale pagare duecento euro al mese un operaio a tempo pieno, eppure). Ma al momento la soluzione concreta più immediata per i lavori indecenti mi sembra quella di non accettarli e di costringere il datore di lavoro a fare marcia indietro.

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  7. @Ornella B. il mio commento arriva con molto ritardo e me ne scuso, complici le vacanze e le attuali pianificazioni per il futuro. E proprio da questo vorrei riprendere il discorso dalle pianificazioni per il futuro, dalle scelte davanti alle quali spesso ci troviamo.
    Sono d'accordo quando dici "al momento la soluzione concreta più immediata per i lavori indecenti mi sembra quella di non accettarli e di costringere il datore di lavoro a fare marcia indietro". Così come sono d'accordo quando affermi "E trattandosi di lavoro gratis, tanto vale farlo per sé stessi attraverso un blog, no?" (la mia idea di blog nasce proprio in seguito a svariate testate che dietro i mesi di prova per "testare le mie capacità" nascondevano i loro reali intenti cioè avere gente che scrivesse per loro gratis, curando i contenuti e le fonti, facendo quindi crescere la testata per poi piantare a casa i cosiddetti stagisti sostituendoli con altre persone da sfruttare). Sono anche d'accordo quando, rispondendo a @Nic, ti domandi (ma in realtà è una domanda aperta): "Dato che di stage realmente formativi o retribuiti sembrano essercene pochi, e dato che l'equo compenso è un miraggio lontano, ci si trova di fronte ad un bivio: lavorare a condizioni indegne o non lavorare?". E il punto è proprio questo. Con una famiglia (e non parlo solo del mio caso specifico, credo di poter rappresentare un certo numero di persone, con affitto e spese quotidiane una persona comune quale strada dovrebbe percorrere? La mia idea di formazione è sempre stata orientata alla specializzazione e alla settorializzazione (e in questo devo soprattutto ringraziare mio marito), specializzarsi il più possibile in un settore, studiare, fare ricerca, sudare e solo alla fine raccogliere i frutti di tanto lavoro. Ma in simili condizioni com'è possibile? Non si finisce forse per cercare lavori generici che magari non hanno nulla a che fare con il proprio percorso di studi e con la propria formazione ma che permettono di sostenere le spese quotidiane, permettono un'istruzione al figlio? E di nuovo un'altra domanda: che futuro avrà mio figlio (e i nostri figli) in questo Paese e in questo sistema?

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