Mezza nuda di Marie Gauthiers: l'esordio narrativo vincitore del Premio Goncourt 2019

 


Ci sono storie che si librano tra la dimensione poetica dello sguardo dell'autore e la sua, personale, scelta strutturale. È il caso dell'esordio narrativo di Marie Gauthiers, Mezza nuda, in Francia edito da Gallimard e vincitore del Premio Goncourt esordienti 2019, in Italia pubblicato da Edizioni Clichy alla fine dello scorso anno nella traduzione di Tommaso Gurrieri.


Caratterizzato da una forte connotazione cinematografica, Mezza nuda ci proietta nella campagna francese in un tempo sospeso, quello delle infinite estati afose e travolgenti, in cui tutto è possibile e tutto può accadere. Nel villaggio bagnato dal fiume dove ognuno fa la sua comparsa rivestendo il ruolo che gli compete, si realizzerà l'educazione sentimentale di Felix, giovane «corpo maldestro di adolescente» ospite per i mesi estivi nella casa del cantoniere per imparare un mestiere in attesa di riprendere le lezioni scolastiche. Per tutto il giorno, Felix segue il cantoniere, l'uomo con la sigaretta in bocca: tuta, guanti da lavoro e scarponi. Si inizia la mattina presto per spalare, spazzare e raccogliere i calcinacci. Gesti semplici, antichi mentre i suoi pensieri sono proiettati verso Gil. È lei che nutre le sue fantasie.


Gil, che sta per Gilberte Anastase Luce, è la figlia dell'uomo con la sigaretta in bocca. La ragazza, di due anni più grande, dai lunghi capelli biondi e arruffati, lavora al minimarket del paese e la sera scompare oltre la siepe, oltre gli alberi, sfugge allo sguardo del padre e di Felix.


Gil, questa giovane Perrette protagonista della favola postmoderna di Marie Gauthiers, se ne va, «légère et court vêtue» come suggeriscono in esergo le parole di Jean de La Fontaine, alla ricerca delle mani pulite di un uomo in grado di «alleviare la sua condizione. Per trovare la leggerezza. «Le mani di un uomo, il suo corpo» avrebbero «realizzato quel prodigio».


«Giovani, meno giovani. Gil era il centro del villaggio, il centro di tutto». Gil l'amante. Gil l'universo segreto, irreale. Cosa ne era stato di quella ragazza prima dell'arrivo di Felix al villaggio? Perché Gil aveva smesso di andare a scuola? Perché diventare il fuoco dei lombi di un uomo di passaggio? Il suo corpo sembra essere senza storia, senza passato e senza futuro, nelle mani di qualcuno che lo rigetta in pasto alla noia dell'estate dopo averlo usato. E lei, Gil, come si sente? Cosa prova quella ragazza che ha una fame da lupi?


Anche la scrittura si libra tra una variegata modulazione di toni: tra le palpitanti immagini di un'estate che è stata e che non ritornerà, tra le riflessioni di Felix su quanto sia destabilizzato dal desiderio di stare con Gil e, nel contempo, l'incapacità di perseguire fino in fondo i suoi intenti, tra le istantanee suggestioni di un tempo e un luogo intrisi di malinconia per ciò che avrebbe potuto essere e che ha già il sapore di qualcosa che non è più, si staglia una narrazione iconografica, luminescente. La cifra stilistica coglie il dolore nel momento esatto in cui si incrina il desiderio: la storia si riannoda su se stessa, gli eventi esplodono.


Scavando nella «memoria con la penna in mano», Felix ritornerà a quel villaggio, a quel fiume, alla casa del cantoniere, alle lunghe attese di Gil di ritorno dai suoi incontri notturni con gli uomini di passaggio. Con la penna in mano, Felix restituirà il nome alla ragazza che voleva essere solo «una brezza bionda dorata, portata da gambe nude e bianche» e darà un nome anche a quell'estate, la divina estate che porta via con sé, come scriveva qualcuno anni fa, anche il meglio delle favole.


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