Prima che mi sfugga. L'esordio di Anne Pauly

                                                                                        

J’ai cueilli ce brin de bruyère

L’automne est morte souviens-t’en

Nous ne nous verrons plus sur terre

Odeur du temps brin de bruyère

Et souviens-toi que je t’attends.

Apollinaire

 

                                                                                                                                                                             

Cosa resta dell'essere figli dopo la morte dei genitori e cosa rimane del tempo e della storia lasciati in eredità? Anne Pauly sembra rispondere a queste domande nel suo libro d'esordio Prima che mi sfugga (L'orma editore, traduzione di Marta Rizzo), la storia, toccante e travolgente, del padre dell'autrice, Jean-Pierre Pauly, "la canaglia senza una gamba, il catorcio, la vecchia carcassa". Tra fiction e autofiction, questo romanzo racconta cosa accade nella vita di Anne e del fratello dopo la morte del padre ed è un racconto che viene scritto prima che le immagini sfuggano, trasportate dal vento dell'oblio, immagini che riappaiono nella memoria dell'autrice come fotogrammi posti gli uni accanto agli altri a formare un quadro, commovente e a tratti malinconico, di un padre mai realmente conosciuto, una figura sfuggente.



Gli istanti che hanno preceduto la morte si sovrappongono ai momenti del funerale e poi all'immagine di Anne tra gli scatoloni nella casa del padre nelle settimane successive alla sepoltura. È qui, tra queste mura, in questa casa angusta, che le cose lasciate dal padre assumono un significato particolare. Cose e non oggetti, come le intendeva Remo Bodei. Le cose rappresentano le relazioni e gli affetti, i valori e i simboli. 


"A poco a poco, una volta scomparse dall'orizzonte, le cose sarebbero scomparse anche dalla nostra memoria, assieme alla loro storia. Ecco come si intrecciano l'oblio e l'abbandono, e mi faceva venire voglia di piangere". È Anne, più del fratello e di chiunque altro famigliare e amico, a scontrarsi con ciò che resta del padre. È lei a trovare conforto nelle parole di Juliette, unico legame che il padre avesse conservato dopo il matrimonio e i figli.


Le cose definiscono anche il rapporto di Jean-Pierre Pauly con il tempo e Anne ne misura la profondità e le sfumature frugando negli scatoloni, nei cassetti, aprendo armadi e cassepanche e trovando il coraggio di scendere al pianterreno della casa paterna dove lei e il fratello hanno ammassato, anno dopo anno, le tracce delle loro esistenze, trasformando lo spazio in un deposito. Anne sceglie cosa salvare, cosa preservare e portare con sé, nel suo presente, per dare un senso alla vita che se n’è andata e a quella che continua.


Nel tentativo di nominare le cose e fissarle nella memoria per riconoscerle e capirle, viene definito il ritratto di Jean-Pierre Pauly. Rancoroso, violento, un uomo che incute paura nella moglie e nei figli, che ha trascinato in una voragine tempestosa il figlio maschio e ha lasciato segni indelebili nella stessa autrice. Ma Jean-Pierre Pauly è anche l’uomo “giusto, sensibile, contemplativo e silenzioso”, l’uomo che ama le parole e nelle quali ha tentato di rifugiarsi prima che “vita, violenza e alcol si mettessero in mezzo”. Nel dipingere il padre, Anne Pauly tratteggia anche quella che è stata la vita famigliare, la vita condivisa con lui.


Rovistando nella casa paterna, Anne fa i conti con i limiti dei suoi genitori ed è quella, come ha scritto Lydia Flem, “l’ultima occasione per guardarli nella loro fragilità. In fin dei conti, non erano che dei poveri esseri umani”.

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