Troppa Felicità. Alice Munro



C'è una musicalità nella raccolta di racconti Troppa felicità di Alice Munro (edita da Einaudi) che percuote le pagine trasmettendo al lettore una vibrante sensazione di pienezza. Anzi, ripensandoci mi sembra che ci sia proprio una vibrazione che parte in sordina, quasi non volesse disturbare la lettura per poi frastornare, risvegliare, qualcosa che abbiamo percepito, quel segreto inconfessabile che abbiamo vagamente e distrattamente intravisto tra una pagina e l'altra e che abbiamo volutamente finto di non vedere perché è troppo doloroso ammettere la sua esistenza.

La Munro ci ha abituati a dei racconti che escono dagli schemi, per quella sfumatura che vorrebbe tendere al thriller senza diventarlo del tutto, per quel favoleggiare ironico e incauto sulla propria terra, per la freschezza dei personaggi, quel loro essere maldestri, spietati, intelligenti, amareggiati, coraggiosi e quindi così maledettamente umani. Alice Munro ci ha abituati a diffidare dalle apparenze: niente romanticismi solo frasi che giocano con la storia e quando si arriva alla fine i tasselli del mosaico si ricompongono. E la luce squarcia il silenzio.

Come nel racconto Bambinate: "sono sicura che a quel punto noi eravamo già andate via". Come in Certe donne: "Io sono diventata adulta e poi vecchia". Come in Buche-profonde: "C'era comunque qualcosa che salvava quella giornata dal disastro assoluto". Come in Dimensioni: "Non deve più andarci a London?". E' tutto lì, stretto in quelle parole, pronunciate per caso ma cariche di una forza inaspettata. E finalmente è tutto chiaro, il segreto svelato.

Dieci racconti, dieci storie spietate che dipingono le donne e gli uomini come essere strani, talvolta persino per loro stessi, C'è un problema di assenza di punti di riferimento, di dialogo, di sensibilità che porta, talvolta, i personaggi a compiere gesti efferati senza neppure rendersi conto della gravità delle situazioni in cui spesso la troppa felicità rischia di annegare nella banalità di un dolore comune. 

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