martedì 14 luglio 2020

L'infinito di amare: intervista a Cettina Caliò Perroni

Questa intervista è stata pubblicata sulla rivista LuciaLibri.


...D’altronde siamo qui per questo, siamo fatti per questo,
per andarcene sul più bello di qualcun altro, promesse
d’assenza sempre mantenute, cose che non smettono mai
di essere state.

Sergio Claudio Perroni, Un altro vuoto


In seguito alla stesura di alcune mie annotazioni, poi accolte dalla rivista LuciaLibri, relative al libro L'infinito di amare. Due vite, una notte di Sergio Claudio Perroni, pubblicato postumo da La Nave di Teseo, ho avuto la sensazione di non dire abbastanza. Un paio di giorni dopo, ho scritto una seconda riflessione. Anche in questo caso non mi ha soddisfatto. Qualcosa mi stava sfuggendo: tracce che non avrebbero raggiunto la superficie se non mi fossi messa in ascolto. Il corpo è il luogo sul quale la vita scrive: Virginia Woolf ha provato a insegnarcelo eppure siamo ancora lontani dal comprendere appieno la portata della sua “lezione”. Ho provato a ricollegare le tracce ravvisate nel romanzo di Perroni non per completare un’esegesi (non ho la presunzione di imbattermi in un tale discorso) ma per ripercorrere il tragitto “prima che scompaia”, e avanzare convinti di conoscere, come ci insegna Perroni, “la strada nell’invisibile” pur sapendo che a farci “andare avanti è solo il ricordo di quell’attimo (…) solo la memoria della luce”.

Mi ha guidata Cettina Caliò Perroni.

Leggendo L'infinito di amare mi sono soffermata sulle parole di Sergio quando ti ha consegnato la bozza del libro: «il piacere assoluto di scrivere senza pensare a niente». Vorrei partire dal piacere che Sergio nutriva per la scrittura, il piacere che rifletteva anche (e soprattutto) il rigore, talvolta estenuante, ma energico. Come descriveresti il suo approccio alla scrittura anche in relazione al suo lavoro di traduttore? Quale connotazione assumono le parole «senza pensare a niente»?

Sergio amava scrivere. Era solito dire: “Traduco per pagarmi da scrivere”. Quando parlava del piacere assoluto di scrivere, si riferiva alla possibilità di abbandonarsi alla scrittura tenendo conto solo di quello che si è, senza pensare alla tendenza letteraria che va per la maggiore e si traduce in molte vendite. La sua è una scrittura potente e, come ho avuto modo di dire, ci si scontra con le sue pagine. E non tutti hanno voglia di fronteggiare se stessi attraverso la pagina. Per lui la bellezza e la perfezione linguistica erano dati irrinunciabili. Erano caratteristiche del suo essere. Scrittura per Sergio era significato e significante: il contenuto doveva avere un suono preciso. (Un giorno mi piantò un casino perché dissi “è abbastanza bello”, e lui “quindi non è bello”, e io “come no?”, “Abbastanza bello, non è molto bello”. Per farti capire l’ossessione per la perfezione e la precisione della parola). Questo bisogno di dire bene, ovviamente, lo applicava anche al suo lavoro principale. Poteva rimanere giorni a pensare come trasferire senza perdere il suono un determinato passaggio.

Parlando di traduzione penso al suo lavoro sul testo del romanzo Lo straniero di Camus. Nessuno dopo Alberto Zevi si era accostato al romanzo di Camus. Dobbiamo attendere la traduzione di Sergio Claudio Perroni per avere una nuova "visione" del libro. Di recente un amico mi ha detto che quando si traduce si interpreta, si dà una visione personale. Quanto di personale credi ci sia nel romanzo portato al cinema da Luchino Visconti nel 1967?  

Io credo che quando facciamo qualcosa, c’è sempre qualcosa di noi che passa. È attraverso i nostri occhi che vediamo. E attraverso la nostra sensibilità che agiamo. Nel caso della traduzione, il trasferimento contiene la sensibilità del traduttore, che interpreta ma solo nel senso che cerca di capire come trasferire al meglio quello che, inevitabilmente, nel passaggio perde qualcosa. La traduzione è un’esperienza, un’avventura. La grandezza degli autori fa la differenza. Ci sono traduzioni per le quali non ci si sente all’altezza e altre per le quali ci si vergogna quasi di metterci la faccia.

Nell'introduzione all'edizione del romanzo di Camus tradotta da Sergio, Saviano scrive «chi leggerà Lo straniero per la prima volta si renderà conto di come la lingua sia una conquista, e lo capirà anche leggendolo in traduzione». Mi viene da pensare all'incipit, alle differenze linguistiche (e successive suggestioni emotive) rispetto alla traduzione di Zevi. Alla luce dell'affermazione di Saviano e delle diversità comunicative tra le due traduzioni, si può affermare che la scrittura per Sergio era anche conquista? E da questo punto di vista qual è la relazione insita in Sergio tra lingua e traduzione?

La scrittura per Sergio era conquista nel momento in cui si riesce a dire l’animo dandogli anche un suono. In generale (e questo si riflette nella sua scrittura e anche nel lavoro di traduttore) la scrittura è rigore, perizia, esercizio continuo. Lui amava le parole perché era consapevole della profondità di ognuna di loro. Lo avviliva molto vedere come e quanto massacriamo la lingua usando parole a sproposito, ignorandone o dimenticandone il significato. E diceva “è una battaglia persa”. Per Sergio la lingua era un bene vitale da proteggere e usare al meglio.

«Mi manca chiunque». Sono le parole in quarta di copertina all'edizione Fandango del 1999 del romanzo di David Foster Wallace, La scopa del sistema. Quali sono le immagini che ti ha lasciato Sergio a proposito del suo lavoro a contatto con la scrittura di Wallace?

Sergio amava Wallace perché in qualche modo lo considerava un elemento di rottura nel panorama letterario. Le immagini che conservo di Sergio traduttore sono il sorriso soddisfatto quando traduceva autori che riteneva grandi e riusciva a farli passare senza danneggiarli, e la stanchezza di tradurne altri che “ignorano cosa sia lingua e bellezza”.

L'esplorazione della lingua al centro della sua vita. Al telefono mi hai detto che editava tutto, a volte correggeva anche testi già pubblicati. Me ne vuoi parlare?

La correzione, l’editing, per lui era una sorta di riflesso condizionato. Non sopportava gli errori, la trascuratezza, l’approssimazione. E questo anche nella vita. Se tu vedessi i libri che ci sono in casa, libri pubblicati, troveresti i suoi segni a matita. Segni di correzione di refusi, annotazioni su passaggi che non funzionano, sostituzione di avverbi, correzione di punteggiatura, domande sulla struttura e sul senso. Sergio è l’esempio di come all’uomo e alla sua vita corrisponda una scrittura e uno stile.

L'infinito di amare è un testo che lo ha accompagnato per molti anni. Immagino la continua sovrapposizione tra l'esperienza e il presente narrativo: la lingua levigata dalle emozioni, un continuo lavoro di esfoliazione per rimuovere l’eccesso, togliere dalla superficie ciò che non serve. Una lingua selettiva e rarefatta, trasfigurata attraverso un preciso corredo di immagini e situazioni. Quanto L'infinito di amare ha attraversato il suo corpo nel corso del tempo e nello spazio vissuto?

Lui l’infinito di amare lo ha vissuto, letteralmente. Così come altri suoi testi. Ha trasfigurato in quel testo la pelle del suo cuore, ogni cosa che è passata su quella pelle e ci ha lasciato un segno.


Puoi leggere l'intervista su LuciaLibri: continua la lettura “Perroni trasfigurava in scrittura la pelle del suo cuore”

martedì 7 luglio 2020

La vita involontaria di Brianna Carafa: la nuova edizione pubblicata da Cliquot

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista LuciaLibri.

Infine, lentamente ti dimenticano. Sei ricordato solo in due date ricorrenti: l’anniversario della tua nascita e quello della tua morte. E poi basta, più nulla, assolutamente più nulla. Con queste parole Fernando Pessoa suggella il silenzio che può avere molteplici significazioni: spirituale, emotivo, letterario. Trovo che a proposito di quest'ultima significazione si potrebbe disquisire circa Brianna Carafa, scrittrice e psicanalista del primo Novecento, che proprio dal silenzio letterario è stata recuperata grazie al lavoro editoriale della casa editrice Cliquot che recentemente ha pubblicato La vita involontaria, il romanzo che nel 1975 si posizionò nella cinquina del Premio Strega, pubblicato all’epoca da Einaudi.



È in questa cornice che si colloca La vita involontaria, un romanzo che incarna quello che Geno Pampaloni negli anni '80 definiva, a proposito di narrazione Mitteleuropea, "il mito di una felicità dorata e precaria, che era già presagio di irripetibilità, nostalgia e nevrosi". Di letteratura Mitteleuropea parla anche Ilaria Gaspari nella prefazione all'edizione Cliquot ricordando le parole che, sul Corriere della Sera, Claudio Magris riservò al romanzo definendolo come una delle prove letterarie che ricordava "i grandi e grigi libri della migliore narrativa mitteleuropea".

Tra queste pagine trova terreno fertile il flusso di coscienza, il monologo interiore, il conflittuale rapporto con la genitorialità (o con le figure che vanno a sostituire i genitori), la tensione emotiva nei confronti del quotidiano che conduce, inevitabilmente, ad uno stato di turbamento e angoscia continuo. Il lirismo della scrittura accompagna la malinconia struggente del protagonista, Paolo Pintus, durante tutta la sua vita. È una malinconia che sfiora un’infelicità costantemente crescente: "mi pareva che il corpo e, con esso la mia persona, fossero isolati dal mondo, come se nessuno li avesse mai toccati. Solo il toccare, materialmente, con la mano, ed essere toccato, carezzare ed essere carezzato, continuare, stringendolo, nel corpo e nello spirito di un altro essere, avrebbe infranto le fredde e trasparenti pareti cresciute chissà quando intorno a me". Ma è solo un'illusione, quella di Pintus. Nessuna donna, nessun amico incontrato sui banchi di studio (Gabriele, Federico, Thomas), nessun professore, tanto meno i suoi familiari, nessuno poteva alleviare l'assenza attorno alla quale si sarebbe inabissata tutta la sua vita.

Da Oblenz (cittadina immaginaria della Germania), Paolo Pintus si trasferisce a Vallona per seguire gli studi di filosofia. Decisione frutto di una serie di raggiri, più o meno volontari, dell’amico di scuola Gabriele. Pintus si lascia sedurre, trasportato dalla fantasia e dalle promesse di un nuovo inizio. Accortosi ben presto che l’amico non sarà al suo fianco nella città universitaria, Pintus avverte un disagio crescente e una forte delusione che lo inducono a pensare di non essere in grado di affrontare la vita che lo attende.    

Sulla sua strada, Pintus fa esperienza di persone che, volontariamente o meno, lo aiutano a riflettere sulla natura umana, sul significato degli accadimenti, della realtà dell’essere e del suo manifestarsi. Sarà il suicidio di uno dei compagni di università a sgretolare le poche certezze alle quali Pintus si aggrappa con già esigua convinzione. Di nuovo si domanda se sarà in grado di fare “ciò che gli altri hanno voluto che io facessi. Ma in modo oscuro e inestricabile, la volontà altrui s’era, malgrado tutto, unita alla mia e ancora un’enorme speranza attendeva l’opportunità di realizzarsi, immobile e nascosta come una belva in agguato”.

I tentativi per emergere da quell’humus refrattario a qualsiasi certezza emotiva sembrano riportarlo al luogo d’infanzia, l’unico in grado di congiungere l’imperfezione di anime affini all’alterità umana: i “Tetti Rossi”. Inaspettatamente i “Tetti Rossi” fungeranno da bussola e luogo d’approdo per Pintus che fin da bambino ha tentato di conoscere l’onda sulla quale vaghiamo nell’oceano, arrivando probabilmente a capire (come insegna Burckhardt) che noi siamo quell’onda.


Puoi trovare questo articolo sulla rivista LuciaLibri. Continua la lettura: Spezzato l’oblio per Carafa, l’assenza di una vita

venerdì 3 luglio 2020

Premio Strega 2020: vince Sandro Veronesi con Il Colibrì edito da La Nave di Teseo

Sandro Veronesi con Il Colibrì edito da La Nave di Teseo ha vinto il Premio Strega 2020. Ad annunciare il vincitore, Giorgio Zanchini in diretta su Rai3 dal  Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma.



Di seguito la recensione al romanzo Il Colibrì, quando ancora si trovava nella dozzina:

Un momento di esitazione può provocare un cedimento il quale rivelerà una crepa emotiva. Nel tempo, la crepa coinvolgerà le parti strutturali dell'esistenza. È nello spazio di queste ferite che lasciano "il cuore troppo aperto" che si inserisce l'esistenza di Marco Carrera nel libro di Sandro Veronesi, Il Colibrì (La Nave di Teseo). In fondo alla pagina, tra suggestivi debiti letterari, si scorge la prova stilistica più autentica del realismo narrativo italiano.

L'architettura dialoga con le opere precedenti mostrando, in questo romanzo, la volontà di unire gli elementi che da sempre caratterizzano le opere di Veronesi. Una commistione di materiali testuali rielaborati in un libro che procede per accelerazioni temporali e slanci emotivi. Dallo studio di Marco Carrera nel 1999 si passa a una delle tante lettere d'amore scritte dal protagonista nel 1998 e inviate a Luisa, lettere che nel tempo diventeranno mail, testimonianze di un amore che affonda le radici negli anni Ottanta, attraversa i decenni, sembra muoversi ma resta fermo. Cristallizzato nella sua imperfetta dimensione, ammantato dai dubbi, dalle incertezze, dalla mancanza di coraggio, l'amore tra Marco e Luisa è solo una delle tante realtà che corrono sui binari del tempo e dello spazio in questo romanzo.

Altre storie segnano Marco Carrera, come gli accadimenti della sua infanzia, quando da bambino osservava la sua famiglia senza vederla realmente, senza cogliere ciò che sua madre e suo padre erano nella realtà. Una quotidianità anch'essa cristallizzata nel tempo e tale resterà nonostante gli anni e le vicissitudini.

E che dire dell'amico Duccio Chilleri? Che dire del fragore degli aerei e del bisogno di Marco di scappare, di sottrarsi a una vita che talvolta non riesce a riconoscere come tale, nella quale lui occupa uno spazio senza riempirlo veramente, senza viverlo fino in fondo?

Marco Carrera da sempre vive sospeso: dall'alto guarda l'esistenza, la sua stessa esistenza, scorrere e accadere, dipanarsi e rovesciarsi, rimettersi in sesto e distruggersi nuovamente. E quando la bruma dell'oblio è troppo densa per essere ignorata, quando Marco sta per cederle tutto, mente e cuore, si chiede (e chiede a Luisa, sua amante, sua confidente, sua... nonostante il tempo, gli anni, la vita di mezzo e in mezzo) "ma il male – hai presente? Ha dei circuiti preferenziali, il male, o si accanisce a caso?".

Mentre la storia volge al termine, abbracciando un futuro prossimo a noi, è impossibile non avvertire il peso che le ali del colibrì devono sopportare durante l'esistenza. Come può, un essere così esile, librarsi nell'etere portando un tale fardello? Ci vuole coraggio per stare al mondo e Marco Carrera ce lo dimostra, pagina dopo pagina, ricordandoci che il dolore provato non impedisce di "godere dei momenti in cui tutto sembra perfetto".

giovedì 2 luglio 2020

Valeria Parrella con Almarina si aggiudica lo Strega OFF 2020

Valeria Parrella con Almarina, edito da Einaudi, ha vinto lo Strega OFF 2020, che si è tenuto ieri sera, 1 luglio, durante La vigilia Stregata, ovvero l'ultimo incontro con la sestina finalista del Premio Strega 2020 presentata da Paolo Di Paolo presso l'Arena Adriano Studios a Roma.
Il vincitore del Premio Strega 2020 sarà proclamato questa sera, giovedì 2 luglio, dal Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma e trasmesso su Rai3. Presenterà Giorgio Zanchini.

Di Almarina si è parlato molto tra le pagine di questo blog. Per leggere la recensione, continua la lettura: Almarina di Valeria Parrella tra i candidati al Premio Strega 2020


mercoledì 1 luglio 2020

Libri per l'estate: più di 30 titoli da leggere in vacanza

Oltre alle novità editoriali di Giugno e Luglio 2020, qui trovate libri, classici e raccolte di poesie che potrebbero essere ottimi compagni di viaggio durante i mesi estivi.

Photo by Rana Sawalha on Unsplash

Pino Cacucci, Nessuno può portarti un fiore (Feltrinelli): ne avevo parlato qui 

Matteo Marchesini, Atti Mancati (Voland): ne avevo parlato qui e anche sulla rivista Letteratu

Virginia Woolf, Diario di una scrittrice (Minimum Fax)

José Saramago, Cecità (Feltrinelli)

Gunter Grass, Il tamburo di latta (Feltrinelli)

Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive (Einaudi)

Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio (BUR)

Natalia Ginzburg, Lessico famigliare (Einaudi - Introduzione di Cesare Segre): ho provato a dire la mia qui

Alice Munro, Troppa felicità (Einaudi): ne ho parlato qui

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia (Feltrinelli)

David Grossman, Qualcuno con cui correre (Mondadori)

Philip Roth, L'animale morente (Einaudi): ne ho scritto qui

David Foster Wallace, Infinite Jest (Einaudi)

David Foster Wallace, Questa è l’acqua (Einaudi)

Edoardo Nesi, La mia ombra è tua (La Nave di Teseo): ne ho scritto qui

Gabriel García Márquez, Cent'anni di solitudine (Mondadori)

Emily Brontë, Cime tempestose (Mondadori)

Paolo Cognetti, Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax): ne ho parlato qui

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano (Einaudi)

Vladimir Nabokov, Lolita (Adelphi)

Pier Vittorio Tondelli, Biglietti agli amici (Bompiani): un assaggio

Marina Mander, L'età straniera (Marsilio): ne avevo parlato qui 

Massimo Recalcati, Mantieni il bacio (Feltrinelli): un assaggio

Djuna Barnes, La foresta della notte (Adelphi): ne avevo parlato qui

Dario Franceschini, Daccapo (Bompiani): ne avevo parlato qui

Pier Vittorio Tondelli, Il mestiere di scrivere (Bompiani): assaggi

Marguerite Yourcenar,  Fuochi (Bompiani): ne ho scritto qui

Alda Merini, Padre mio (Frassinelli): assaggi

Yukio Mishima, Sete d'amore (Guanda): assaggi 

Sergio Claudio Perroni, L'infinito di amare. Due vite, una notte (La Nave di Teseo): ne ho parlato qui e sulla rivista LuciaLibri

Paolo Cognetti, Le otto montagne (Einaudi)

Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza (Mondadori): ne ho parlato qui

Annie Ernaux: tutti i libri (tradotti da Rizzoli e L'Orma Editore)

Annie Ernaux tra identità personale e collettiva: da L’écriture comme un couteau a Gli Anni

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista LuciaLibri.

Dinnanzi ad alcuni eventi gravi e assoluti, il testimone, colpito nel profondo, prorompe nel canto, cioè nel grido che aspira alla purezza. Le parole di Jean Starobinski provengono dal suo saggio Introduction à la poésie de l’événement. La voce scende nell’abisso, il grido trafigge la tragicità del quotidiano infondendo un sentire inedito. Le parole del poeta trasfigurano la realtà, ne riscrivono limiti e confini. Ho pensato alle parole di Starobinski leggendo alcuni passi dell’opera L’écriture comme un couteau di Annie Ernaux (Gallimard, 2011). La sua voce, guidata dalle riflessioni di Frédéric-Yves Jeannet, taglia la pagina, affonda come un coltello nella sua storia, arriva alle radici per poi risalire e trasformare il racconto da personale a corale. Riflessioni che diventano per Ernaux l’occasione per considerare il simbolismo insito nel gesto di scrivere. Il gesto ha origine dalle mani, le stupende e benedette mani, rimembrando i versi di Rainer Maria Rilke (Ma tu hai stupende/ benedette le mani/ Nascono chiare a te dal manto/ luminoso contorno:/ Io sono la rugiada, il giorno/ ma tu, tu sei la pianta).


Di fronte all’incommensurabile provvisorietà della vita che cosa possono fare il poeta e lo scrittore se non calarsi nel sempiterno per dare suono e parola all’indicibile? Questo è ciò che tenta di individuare Starobinski nel suo saggio sul ruolo della poetica nel mondo contemporaneo e questo è ciò che fa la scrittura di Ernaux traslando le implicazioni emotive individuali in un contesto collettivo. Il singolo diventa viatico per un racconto corale.

Gli Anni (276 pagine, 16 euro) in Italia tradotto da Lorenzo Flabbi e pubblicato da L’Orma editore, è l’opera di Annie Ernaux che ci consegna un materiale narrativo dove i confini spazio-temporali della storia sono lo specchio di una memoria collettiva basata su elementi identitari, culturali e sociali condivisi. Anche i sentimenti individuali si intrecciano alla voracità delle emozioni collettive: si potrebbe parlare, pertanto, di un sentire individuale che trascende la sua stessa esistenza diventando riflesso della società. Vivido, difatti, è il legame con la società. Possiamo osservarlo nelle annotazioni personali così come nel racconto di episodi che all’apparenza possono sembrare ancorati a una realtà esclusivamente personale ma che si inscrivono appieno nella storia sociale. Gli Anni (ne abbiamo scritto anche qui) è forse uno dei testi più rappresentativi della capacità di Ernaux di trasformare nero su bianco la storia personale in racconto corale. Intrecciare l’individuo alla collettività alla quale appartiene.

Écrire la vie. Non pas ma vie, ni sa vie, ni même une vie. La vie, avec ses contenus qui sont les mêmes pour tous mais que l’on éprouve de façon individuelle. Annie Ernaux scrive la vita. Ma non la sua vita. Scrive la vita. Con le sue ferite, i suoi dolori, le rinunce e le privazioni ma anche l’abbondanza, i mutamenti. Eventi collettivi che ognuno sperimenta in modo individuale.

Je n’ai pas cherché à m’écrire, à faire œuvre de ma vie: je me suis servie d’elle, des événements, généralement ordinaires, qui l’ont traversée, des situations et des sentiments qu’il m’a été donné de connaître, comme d’une matière à explorer pour saisir et mettre au jour quelque chose de l’ordre d’une vérité sensible. Annie Ernaux non racconta se stessa ma utilizza il materiale umano della sua esistenza per esplorare in profondità e portare alla luce quel che potremo definire un modo di essere e di guardare il mondo.

C’est “descendre” dans la réalité sociale, la réalité des femmes, la réalité de l’Histoire, de ce que nous avons vécu de façon collective mais au travers de ce que j’ai vécu personnellement. La discesa nella realtà sia essa sociale, femminile e storica permette ad Ernaux, per sua stessa ammissione, di raggiungere una comprensione e un coinvolgimento totali da parte dell’individuo che, pertanto, diventerà una delle voci della collettività. Si avverte la compenetrazione tra individuo e società: l’uno riceve dall’altra e viceversa, in uno scambio continuo in cui l’umanità dell’io si riconosce, parafrasando Martin Buber, «dicendo Tu».

L’impronta umana è dentro ognuno di noi, salvo poi dimenticarcene velocemente. Ernaux in una recente lettera al presidente Macron esortava a guardare il periodo di confinamento appena trascorso come a un momento propizio per costruire un mondo nuovo in cui «le attuali solidarietà mostrano la possibilità». Non è mai troppo tardi per comprendere l’inestricabile unione tra individuo e società. Del resto, lo diceva già Terenzio: «Tutto quello che c’è di umano mi appartiene».


Puoi trovare questo articolo sulla rivista LuciaLibri. Continua la lettura: Annie Ernaux tra storia individuale e collettiva.



Parte del mio studio sull'opera letteraria di Annie Ernaux è contenuta nel mio ultimo, L'evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore libro