Questo è il sito web di Sara Durantini. Libri editi oltre a racconti, brevi saggi e articoli pubblicati, nel tempo, su riviste, periodici e blog. Gli ambiti di interesse: autobiografia femminile, letteratura al femminile. Tra le autrici che hanno suscitato maggiormente il suo interesse: Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux, Anaïs Nin, Nathalie Léger, Sylvia Plath, Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Anne Sexton, Chandra Livia Candiani, Alice Munro.
Interior with Artist's Daughter è il quadro di Vanessa Bell che ritrae la figlia, Angelica, assorta nella lettura. Vanessa Bell la osserva e la ritrae, ma non da madre che guarda una figlia, da artista che riconosce nell’altra un’energia affine, una concentrazione creativa che non ha bisogno di parole.
Vanessa Bell era sposata con Clive Bell, critico d’arte e membro del gruppo di Bloomsbury, con cui aveva avuto due figli. Ma già durante la Prima guerra mondiale, i due conducevano vite sentimentali indipendenti. Vanessa si era legata al pittore Duncan Grant, anche lui parte del circolo, e dalla loro relazione era nata Angelica. La bambina crebbe a Charleston, immersa in quell’ambiente anticonvenzionale e liberissimo. Angelica era una bambina che trascorreva le giornate tra i libri, tra i fili di lana, a contatto co tele e pennelli. A Charleston, era coinvolta in un mondo privo di vincoli creativi: cucire, tessere, cantare, dipingere le veniva naturale. Sembrava nata per creare. A posteriori, si è detto che fosse “troppo dotata” in tutto ciò che faceva, al punto da non riuscire mai a scegliere una sola forma d’arte a cui dedicarsi. Qui, ogni gesto quotidiano poteva diventare arte. I bambini partecipavano alla decorazione della casa, contribuivano a dipingere le pareti, aiutavano negli studi. L’iconico murale a mo’ di “carta da parati” nella sala da pranzo fu progettato da Vanessa e Duncan, ma realizzato negli anni Quaranta anche grazie a Angelica e al fratellastro Quentin.
Vanessa incoraggiava quella ricchezza senza mai forzarla, e ciò emerge chiaramente nei ritratti che le dedicò. In questo dipinto, Angelica è colta in un gesto semplice che si trasforma in emblema di interiorità, curiosità e libertà. La madre la guarda con attenzione, ma anche con rispetto: come ha osservato la critica Sarah Milroy, Vanessa “sembra aver vissuto i suoi figli più come pari creativi che come persone a carico”.
Attraverso Interior with Artist's Daughter, Vanessa Bell restituisce il silenzio della concentrazione che si creava tralemura dellacasa di Charleston, la forza della lettura, ma soprattutto il mistero di una giovane mente già attraversata da mille mondi possibili.
“Una
volta che hai imparato a pensare, il conformismo diventa un’abitudine difficile
da indossare nuovamente. Il dubbio e l’esame critico diventano la tua guida,
non per ribellione, ma per evoluzione. Nessuno che impari a pensare può tornare
a obbedire come faceva prima, non per spirito ribelle, ma per l’abitudine ormai
acquisita di mettere in dubbio ed esaminare ogni cosa”.
Yann
Andréa è lo studente di filosofia che, come Adamov, pensa che il sogno notturno
ci vendichi dalla disperazione dei giorni. È lo studente del 26 di rue
Saint-Benoît, scomparso nel 2014. È sepolto al cimitero di Montparnasse accanto
a colei che ha venerato per sedici anni, Marguerite Duras. È sepolto con il
nome che lei gli aveva dato, quello, appunto, di Yann Andréa.
Di
lui si sapeva che era stato per sedici anni il suo amante, compagno, servitore,
autista, segretario, infermiere. Questo amore, lui stesso lo aveva raccontato
in un libro. Ma della sua vita prima e dopo, si conosceva poco, come se fosse
un uomo senza passato e senza futuro.
Julie
Brafman è partita sulle tracce di questo personaggio enigmatico, fino a
ritrovare, nei cassetti di un mobile, quaderni, fotografie, diari: l’archivio
di un’intera vita che Yann aveva lasciato prima di sparire nella notte.
Con
una scrittura elegante e avvolgente, Julie Brafman fa rivivere quest’uomo tanto
singolare quanto commovente tra le pagine di Yann dans la nuit e, intrecciando racconto, inchiesta e archivi,
racconta una storia d’amore e di letteratura.
In
merito alla copertura mediatica del processo in corso sulla violenza avvenuta
nella villa in Sardegna della famiglia Grillo, l’Osservatorio Step – Ricerca e
Informazione, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi, del
Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e delle Giornaliste,
dell’Usigrai e all’associazione Giulia Giornaliste, richiama l’attenzione sul
rispetto delle regole deontologiche e sul ruolo cruciale dell’informazione nel
contrasto agli stereotipi di genere.
Il
progetto STEP è realizzato dall’Università degli Studi della Tuscia in
partnership con l’Associazione Differenza Donna Ong.
La
responsabile scientifica del progetto è Flaminia Saccà, professoressa ordinaria
di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università degli Studi della
Tuscia e presidente del corso di laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni
Internazionali.
Di seguito il comunicato integrale diffuso dalle organizzazioni firmatarie:
Il
processo sulla violenza nella villa in Sardegna di proprietà della famiglia
Grillo presenta, in questi giorni, su molti media, una ricaduta in approcci
narrativi che l’Osservatorio Step – Ricerca e Informazione, segnala con
preoccupazione, chiedendo alle direttrici e ai direttori, a colleghe e colleghi
che seguono le udienze, di attenersi a quanto contenuto nel Codice deontologico
dei Giornalisti e delle Giornaliste e nel Manifesto di Venezia.
I
virgolettati, il soffermarsi sul presunto cambiamento, anche
nell’abbigliamento, di uno degli imputati (Ciro Grillo), il suo pianto alla
fine della deposizione alimentano una empatia nei confronti dell’imputato di
violenza, che ha voce, mentre la vittima resta in silenzio, è definita
“presunta”, forma subdola di colpevolizzazione trascurando le conseguenze di
ciò su di lei.
L’Osservatorio
Step – Ricerca e Informazione dell’Università La Sapienza, presieduto dalla
professoressa Flaminia Saccà, insieme alle Commissioni pari Opportunità di
Federazione nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) , Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei Giornalisti e delle Giornaliste, Usigrai e all’associazione
Giulia Giornaliste, che ne fanno parte, chiede, ancora una volta, di raccontare
i fatti con parole e immagini corrette, senza fare proprie le tesi della difesa
e, anche, del pubblico ministero, evitando quella asimmetria tra uomini e
donne, di cui ancora è intrisa la società e che l’informazione deve contribuire
a cambiare.
Le
Commissioni pari Opportunità di Fnsi, Consiglio Nazionale dell’Ordine e Usigrai
e Giulia Giornaliste si riservano di denunciare ai Consigli di Disciplina degli
ordini di competenza territoriale autrici e autori di una informazione che
offende le donne.
“L’histoire
des femmes est une histoire du silence”, scriveva Michelle Perrot nel suo
saggio Les femmes ou les silences de l’Histoire, denunciando la
sistematica esclusione delle donne dal racconto storico ufficiale. Più che
assenti, le donne sono state attivamente silenziate: confinate ai margini,
dimenticate, archiviate fuori campo. Il loro contributo alla cultura, alla
politica, alla scrittura è stato spesso reso invisibile da pratiche di
potere che hanno selezionato cosa fosse degno di memoria e cosa no. A distanza
di oltre vent’anni, quella riflessione resta drammaticamente attuale,
soprattutto se accostata all’appello visionario di Hélène Cixous in Le rire
de la Méduse, dove l’autrice invita le donne a riprendersi la parola, a
scrivere sé stesse, a produrre memoria oltre le griglie del logos patriarcale. Per
Cixous, scrivere è atto sovversivo, gesto di riappropriazione della propria
storia per immettersi nella Storia. Un tale processo di riemersione e
riscrittura lo rintraccio nel lavoro dell’editrice e saggista Luciana Tufani,
che, dagli anni Ottanta, ha dato, e continua a dare, voce a generazioni di
autrici dimenticate o mai pubblicate. Il suo lavoro ha ricucito fili spezzati, ha reso accessibili testi relegati ai margini dagli archivi ufficiali.
Un’operazione profondamente politica: un atto di
restituzione e giustizia della memoria femminile contro una cancellazione che
affonda le radici nei dispositivi del potere patriarcale. Un lavoro similare, nato negli stessi anni di quello di Tufani, viene intrapreso dal gruppo filosofico Diotima
con la riscrittura stessa del senso della storia, a partire dalla differenza
sessuale. In Il pensiero della differenza sessuale, le studiose
di Diotima propongono un rovesciamento della logica maschile proponendo una
prospettiva che costruisce, che si fa portavoce di una nuova genealogia
femminile. Il pensiero della differenza non è chiusura identitaria, ma apertura
trasformativa, capace di creare spazi inediti per una storia altra: una storia
plurale, scritta dalle donne, che non si aggiunge alla narrazione dominante, ma
la decostruisce.
È
in questa linea di continuità teorica e di azione concreta che ho letto, e qui
mi sembra che si possa inscrivere, Il filo perduto. Quando le donne non
avevano voce, il progetto cinematografico di Flavia Caporuscio e
Alessandro Scillitani. Il filo perduto è il documentario che costruisceuna riflessione visiva e collettiva sulla memoria femminile, prendendo
avvio da un simbolo potente: il lenzuolo scritto da Clelia Marchi. Contadina
mantovana, di Poggio Rusco, Marchi decide, dopo la morte del marito, di
scrivere la storia della propria vita sul lenzuolo matrimoniale. Era l’unico supporto disponibile, e al tempo
stesso diventava metafora del legame spezzato, del confine tra intimo e collettivo,
tra silenzio e parola (oggi un libro dal titolo Gnanca na busia. Il romanzo di una vita scritta su un lenzuolo edito da Il Saggiatore, sul quale tornerò). Quella stoffa, che oggi è conservata all’Archivio
Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, è un atto fondativo: un “grado
zero” della narrazione autobiografica femminile, dove il gesto quotidiano si fa
scrittura primaria, testimonianza irriducibile di una vita ai margini.
Il documentario di Caporuscio e Scillitani prende avvio proprio da questa scrittura,
nata nel cuore della casa, fuori dai codici e dalle autorizzazioni del sapere
ufficiale. E da qui si apre verso una coralità più ampia. Attraverso interviste
raccolte nell’arco di dieci anni, il documentario dà voce a filosofe, studiose,
scrittrici, intellettuali che, con linguaggi e approcci diversi, condividono un
intento comune: ricucire una memoria lacerata, smontare il paradigma
androcratico che ha strutturato la narrazione della civiltà occidentale.
In
questo intreccio tra materia e simbolo, tra esperienza vissuta e memoria
trasmessa, il documentario di Caporuscio e Scillitani non solo rende
visibile l’invisibile, ma restituisce dignità e centralità a una genealogia
cancellata.
Informazioni
e dettagli:
Il
filo perduto
Progetto di Flavia Caporuscio e Alessandro Scillitani
regia
Alessandro Scillitani
Su Produzioni dal basso si può contribuire alla riuscita del film nonché alla sua distribuzione e diffusione.
Obiettivo
primario del documentario è promuovere la consapevolezza di genere nelle
giovani generazioni, portando sullo schermo l’altra metà della Storia sinora
ignorata, quando non volutamente occultata. Per farlo sono state utilizzate come fonte primaria proprio le voci delle donne, messe a tacere per secoli e
che qui trovano uno spazio d’ascolto grazie alle voci di altre donne, loro
discendenti, che si sono impegnate nel disseppellire “il passato muto delle
loro madri” (Luisa Muraro).
Interviste
a (in ordine alfabetico): Beatrice Alfonzetti, Roberta Balestrucci,
Novella Bellucci, Natalia Cangi, Eva Cantarella, Marina Caffiero, Flavia
Caporuscio, Francesca Corrao, Benedetta Craveri, Laura Curino, Serena Dandini,
Maria Paola Fiorensoli, Manuela Fraire, Patrizia Gabrielli, Mariangela
Gualtieri, Francesca Koch, Alessia Lirosi, Loredana Lipperini, Dacia Maraini,
Elisabetta Marino, Alina Marazzi, Melania Mazzucco, Monica Morini, Elisabetta
Moro, Liliana Moro, Luisa Muraro, Michela Murgia, Giovanna Puddu, Liliana
Rampello, Lidia Ravera, Fiorenza Taricone, Natascia Tonelli, Vittoria Tola,
Chiara Vigo.
Parte delle donazioni sarà devoluta alla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, istituzione che raccoglie e conserva documenti autobiografici italiani in forma di diari, epistolari e memorie. Dentro gli archivi di Pieve ci sono storie di donne che non hanno mai avuto accesso alla scrittura e che attraverso il diario hanno lasciato traccia di sé.
L’opera di Colette si nutre di un dialogo incessante con la madre, Sido, figura mitica e fondante, il cui ricordo permea la scrittura come traccia vivente di un’educazione sentimentale e sensoriale. La scrittura di Colette diventa così il gesto di recupero e di reinscrizione della propria soggettività nel mondo e nella storia, un atto che ricostruisce il proprio "io" attraverso le parole e, al contempo, scolpisce una coscienza femminile autonoma. L’incontro monografico esplora come, attraverso la memoria e il gesto della scrittura, Colette propone un modello di esistenza in cui l’identità femminile si afferma nel dialogo tra esperienza e linguaggio, tra corpo e parola.
Si svolgerà il 13 maggio a Palazzo INAIL, Sala Conference, il primo di quattro incontri promossi dall' Associazione “il paese delle donne” sul tema Dialoghi tra culture e femminismi, esperienze e teorie. Presentano l'iniziativa Paola Binetti, Fiorenza Taricone, Daniela Carlà. Il primo appuntamento è dedicato a “La sorellanza”.
Relatrici:
Francesca Brezzi, Docente Filosofia Morale Roma Tre
M. Chiara Mattesini, Storica pensiero politico Univ. Tor Vergata
Lo ha annunciato Sua Eminenza, il Card Farrell, questa mattina, lunedì 21 aprile alle ore 7.35: “Carissimi fratelli e sorelle con profondo dolore devo annunciare la morte di nostro Santo Padre Francesco. Alle ore 7:35 di questa mattina il Vescovo di Roma, Francesco, è tornato alla casa del Padre. La sua vita tutta intera è stata dedicata al servizio del Signore e della Sua chiesa. Ci ha insegnato a vivere i valori del Vangelo con fedeltà, coraggio ed amore universale, in modo particolare a favore dei più poveri e emarginati. Con immensa gratitudine per il suo esempio di vero discepolo del Signore Gesù, raccomandiamo l'anima di Papa Francesco all'infinito amore misericordioso di Dio Uno e Trino.”
Ieri, a Pasqua, l'ultima apparizione e il discorso di Papà Francesco il giorno di Pasqua, 20 aprile 2025:
"Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo. L'esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e che sono gravide di conseguenze Politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura l'uno dell'altro, degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona. In questo anno giubilare la Pasqua sia anche propizia per liberare i prigionieri di guerra e quelli politici. Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano. Davanti alla crudeltà di conflitti che coinvolgono civili, inermi, attaccano scuole, ospedali, operatori umanitari non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli ma persone con un anima ed una dignità. Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità Politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma ad usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere le paure, favorire iniziative che promuovano lo sviluppo. Sono queste le armi della PACE: Quelle che costruiscono il futuro invece di disseminare la morte".
Conferenza tenutasi all'Alliance Française di Treviso presso Palazzo Giacomelli Confindustria Veneto Est.
«Ecrire pour exister: mémoire et identité féminine entre autobiographie et autofiction». «J’ai commencé à faire de moi-même un être littéraire, quelqu’un qui vit les choses comme si elles devaient être écrites un jour ». A partir de cette citation d’Annie Ernaux, Mme Durantini a approfondi au cours de sa conférence le lien entre écriture, mémoire et identité féminine à l’aide d’un regard intersectionnel et a touché également les réflexions de deux intellectuelles qui ont marqué l’histoire de la pensée féministe : Hélève Cixous et Simone de Beauvoir. Par le biais d’un parcours qui mêle autobiographie et autofiction, et dans un dialogue idéal avec les œuvres d’Ernaux, Sara Durantini (biographe d’A. Ernaux et autrice de Pampaluna, une fresque autobiographique suspendue entre narration personnelle et mémoire historique), a guidé sa réflexion sur le pouvoir de l’écriture, capable de transformer l’expérience individuelle en un récit collectif.
"Ho iniziato a fare di me stessa un essere letterario, qualcuno che vive le cose come se un giorno dovessero essere scritte" A partire da queste parole di Annie Ernaux, durante l’incontro Sara Durantini ha approfondito il legame tra scrittura, memoria e identità femminile con uno sguardo intersezionale, toccando anche le riflessioni di due intellettuali che hanno segnato la storia del pensiero femminista : Hélène Cixous e Simone de Beauvoir. Attraverso un percorso che intreccia autobiografia e autofiction, e in un dialogo ideale con le opere di Ernaux, Sara Durantini (biografa di Annie Ernaux e autrice di Pampaluna , un affresco autobiografico sospeso tra narrazione personale e memoria storica) ha guidato la riflessione sul potere della scrittura, capace di trasformare l’esperienza individuale in un racconto collettivo.
“Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare:
Sono una donna; questa verità costituisce il fondo
sul quale si ancorerà ogni altra affermazione”.
Simone de Beauvoir
Foto di Paola Agosti
Negli anni ho visto prendere forma, fuori e dentro di me, una genealogia di donne, un venire al mondo consapevole, radicato nel riconoscimento della propria origine femminile. Donne che, attraverso il racconto di sé, hanno intrapreso un percorso di autocoscienza e autoformazione, di decostruzione e ricostruzione del proprio io, donne che si sono messe a nudo per conoscersi e riconoscersi, per liberare la propria singolarità, la propria percezione dell’io nel mondo, opponendosi a qualsiasi preconcetto e costrutto sociale radicato nella dominazione maschile.
(...)
Illuminare la genealogia delle donne significa addentrarsi nella complessità della scrittura femminile, immergersi in una lingua comune e comunitaria, lavorare per renderla trasmissibile. Significa costruire uno spazio in cui le donne possano pensarsi come soggetto ed esistere senza le limitazioni imposte da uno sguardo altro. La strada da compiere è ancora lunga. Nonostante le lotte per l’emancipazione e le conquiste ottenute, in molte parti del mondo i diritti delle donne non sono ancora riconosciuti come diritti umani. Uscire dall’invisibilità, riacquistare la propria voce, combattere i troppi silenzi che ancora oggi oscurano la violenza fisica e psicologica sulle donne, è un compito che appartiene a tutte. Perché quella “sorella” che Virginia Woolf immaginava potrà rinascere solo se continueremo a lavorare per lei.
Tutto è in bilico nel gesto della scrittura, urgenza che spinge a raccontare, a ritrovare un legame con sé stessi e con le voci che ci hanno preceduto o che risuonano accanto a noi, nel silenzio della parola.
E' da questa riflessione che sono partita dopo la lettura di Scisma di Ilaria Palomba (Les Flâneurs Edizioni, collana curata da Alessandro Cannavale ed Elisabetta Destasio Vettori).
Questa autobiografia poetica, facendo ricorso alle parole della sapiente prefazione scritta da Luigia Sorrentino, mi ha proiettata in un viaggio tra le rovine interiori e i tentativi di risurrezione, in un dialogo continuo tra distruzione e ricostruzione del sé. "Il racconto in versi", avverte Sorrentino in apertura alla prefazione, "di una sopravvissuta che guarda sé stessa dal di fuori, dal dopo. Il diario in versi è contrassegnato dall’inizio alla fine dai centottant’otto giorni trascorsi dalla scrittrice nell’Unità spinale del CTO a Roma".
Un racconto che, già dal titolo, Scisma, evoca una frattura, una separazione profonda. Ma da cosa o da chi? Palomba affronta un dissidio esistenziale che si fa universale: lo scisma tra il sé e il mondo, tra il corpo e l’anima, tra la parola e il silenzio. La sua poesia è un grido che nasce dall’incomunicabilità, dalla consapevolezza di un dolore che non si riduce a esperienza individuale, ma che diventa condizione condivisa, collettiva.
I versi di Palomba vibrano di un’angoscia che si fa carne, di un senso di perdita che abita ogni immagine evocata. C’è una tensione continua tra distruzione e ricerca di senso, tra annientamento e volontà di sopravvivenza. E in questa tensione, la scrittura è un bisturi che incide senza pietà. I suoi versi sono scarni, essenziali, privi di orpelli, e proprio per questo capaci di colpire con violenza. C’è un uso sapiente del ritmo, un’alternanza di frammenti spezzati e immagini dirompenti che travolgono.
E poi quel corpo. Esposto, martoriato, simbolo della ferita e, al tempo stesso, della resistenza: ossa spezzate, vertebre esplose, lesioni spinali che diventano metafore di una frattura più profonda, esistenziale e linguistica. Il dolore non è solo narrato, ma è esperito attraverso una scrittura che si fa voce e carne, che restituisce lo smarrimento e la lotta contro la paralisi, la perdita, la paura di non essere più come prima.
In un dialogo costante con i suoi maestri, Palomba accoglie la parola di Alejandra Pizarnik, Amelia Rosselli, Paul Celan, Louise Glück. Ogni sezione del libro si apre con una loro citazione, creando un tessuto intertestuale che arricchisce e amplifica il senso dei versi. Se la Pizarnik è la stella polare della disperazione poetica, la Rosselli incarna la furia espressiva, Lévinas e Lacan offrono uno sguardo filosofico sulla scissione dell’io e sulla possibilità della ricostruzione. Palomba assimila queste voci e le trasforma in un canto personale, in una scrittura che cerca di dare forma all’inesprimibile. La scrittura diventa il mezzo con cui l’autrice ridefinisce la propria esistenza, trasformando la sofferenza in una nuova possibilità di essere.
La scrittura di Scisma non si fissa in un’unica forma ma si inscrive in un processo di continua trasformazione. La parola diventa un movimento incessante tra memoria del passato e realtà del presente, un flusso che oscilla tra la rovina e la rinascita, tra il crollo e la resistenza. Il testo è una fenditura, un’articolazione stratificata di fratture e ricomposizioni, dove ogni poesia porta con sé l’eco della distruzione e il tentativo di ricostruzione del proprio io.
In questo dialogo tra dissoluzione e rinascita, il gesto stesso della scrittura diventa il campo delle forze, giuntura tra opposti, luogo di resistenza alla fissità del senso, in cui ogni parola si carica del peso di ciò che è stato e dell’urgenza di ciò che potrebbe ancora essere.
Sembrano
lontani i tempi in cui il poeta tedesco Walther von der Vogelweide implorava,
attraverso i suoi versi, che qualcuno gli spiegasse che cos'è l’amore. Così
come lontani sembrano essere i tempi dei cantori dell'amor cortese, quelli
della produzione occitanica, i tempi delle lettere d'amore scritte durante il
Medioevo i cui riflessi si ripercuoteranno lungo tutto l'Ottocento grazie alle
penne che illumineranno molti scritti romantici. Si potrebbe discutere e
scrivere per ore della storia dell'amore nella letteratura. Ci hanno provato storici, critici, giornalisti e professori. Per
citare una recente pubblicazione, il professore di letteratura italiana Roberto
Gigliucci ha circoscritto la storia dell'amore in letteratura all'Europa (come
recita il sottotitolo, "Dai trovatori a Stendhal"). Ma se vogliamo
uscire dai percorsi accademici per abbracciare una riflessione di più ampio respiro, merita attenzione l'ultimo libro dello
psichiatra, sessuologo e scrittore Mattia Morretta, Non fu l'amore. I nuovi volti della
passione, recentemente pubblicato dalla casa editrice Viator. Il titolo sembra
voler rispondere alla domanda del poeta tedesco citata in apertura così come
sembra volersi inserire nella disamina su cantori di amori ed epopee.
E invece si scorge, proprio già dal titolo, un indizio. Anzi, potrei osare la
parola bagliore: l'accento viene posto sui "nuovi volti della
passione".
Ebbene, Morretta sembra voler avvertire il lettore: non siamo di fronte a una disamina
delle manifestazioni più nobili e idealizzate di questo sentimento, ma a un
viaggio nei meandri più oscuri e ambigui della passione umana. Qui l'amore
perde i suoi connotati più rassicuranti per svelarsi nelle sue forme più
complesse, ossessive e, talvolta, distruttive.
Con
buona pace di Cupido e dei suoi (nuovi e non) discepoli, non c'è compiacimento
nelle parole di Morretta, ma un invito consapevole al confronto con se stessi e con gli
altri (anche con l'altro da sé) per indagare le sfumature meno celebrate delle
relazioni umane. Morretta ci accompagna oltre i confini del romanticismo
convenzionale, esplorando quella sottile linea che separa l'amore dalla
passione, l'attrazione dal tormento.
Morretta,
attraverso la sua lunga esperienza di psichiatra e sessuologo, offre un
approccio che unisce competenze scientifiche e coscienza letteraria. I molti
riferimenti ad opere letterarie e artistiche fungono da volano per guardare
alla contemporaneità, per osservare proprio quei (nuovi) volti della passione,
per capire da che parte sta andando la nostra società e l'umanità tutta in termini di relazioni affettive.
Dieci capitoli, dieci brevi saggi che possono
essere letti e analizzati anche singolarmente: ognuno contiene una riflessione,
uno studio, un dibattito. Ognuno (ci) interroga e provoca al tempo stesso:
"solo un'attenta educazione sentimentale può insegnare l'arte di mediare
tra poli opposti, di scendere e salire a occhi chiusi la ripida scala della
fisicità e della spiritualità, avendo cura l'integrità della persona". Un
avvertimento che apre il primo dei dieci saggi e che, al tempo stesso,
ritornerà a più riprese lungo tutto il libro.
Fisicità e spiritualità accanto
all'integrità della persona: "per fare l’amore, come per qualunque altra
cosa l'uomo ha bisogno di potersi dare una spiegazione e una giustificazione,
che rendano necessarie ideazione e condotta conseguente. Se le azioni non ci
riassumono, però ci afferrano e trascinano, ecco perché contano consapevolezza,
vocabolario adeguato e presa di posizione". Questa riflessione ci
accompagna nella lettura delle pagine successive, dove le relazioni affettive
vengono analizzate attraverso la lente del soddisfacimento consumistico e
dell'instant gratification. Questi fenomeni, nati nel mondo digitale, hanno
ormai superato gli schermi per infiltrarsi nella nostra quotidianità,
influenzando tanto la sfera femminile quanto quella maschile. Chirurgia
estetica, corpi modificati e relazioni costruite su modelli irraggiungibili
diventano metafore di un amore che, più che vissuto, viene spesso consumato.
"Fin dalla nascita
occorrerebbe insegnare cos'è la sessualità affinché sia vissuta in modo
'appagante e consapevole', durante il periodo delle scuole elementari andrebbe
spiegato il concetto di 'sesso accettabile', cioè consensuale, volontario,
paritario, con accenni all'abuso e alle relazioni omosessuali"; dai nove
anni introdurre la familiarizzazione col profilattico e l'idea dei 'diritti
sessuali'; dai dodici incoraggiare il coming out dell'omosessualità, trattare
contraccezione, aborto, genitorialità; infine dai quindici favorire la pratica
e l'interazione di coppia". Morretta avverte di prendere con cautela e buon senso le raccomandazioni politicamente corrette dell'OMS sull'educazione sessuale nelle scuole.
A detta della scrivente, la trasposizione sul piano pratico di queste raccomandazioni si è spesso rivelata tutt'altro che semplice. Di conseguenza, gli istituti scolastici, i docenti e le famiglie hanno cercato di colmare quella che continua a rappresentare una lacuna, ricorrendo a un'accozzaglia di idee, proposte e preconcetti poco strutturati. Il prezzo che stiamo pagando come società è altissimo: si tratta della perdita di quell'integrità di cui sopra; come scrive Morretta procedendo nei
capitoli-saggi successivi: "se si dice rotti a tutte le esperienze, è perché nel
frattempo si perde l'integrità, non si è più interi, avendo smarrito parti di
sé non recuperabili".
E
questa progressiva perdita d'integrità conduce a una debolezza fisica e
spirituale, poiché, come spiega Morretta, anche nella sfera privata si
ripercuote creando coppie che diventano controfigure di se stesse, intrappolate
in dinamiche di "disimpegno sessuale e amorosi dissensi". La
spettacolarizzazione del privato e la riduzione della parola amore a una merce da esibire sugli schermi alimentano questa deriva.
E quale ruolo hanno
le donne, libere e liberate, in questa società che trasforma l'intimità in spettacolo,
sacrificando i sentimenti autentici sull'altare di una visibilità effimera e riducendo le battaglie femministe a brand da esibire più per moda che per reale consapevolezza, svuotando di significato le conquiste ottenute con fatica?
In una società dove anche gli adulti sembrano alla deriva, il pericolo per i giovani e giovanissimi diventa tangibile. Questi ultimi sono spesso ridotti a "cavie di esperimenti sociali e scientifici", vittime inconsapevoli di un mondo che promette progresso ma conduce, inesorabilmente, verso la disumanizzazione. Altro che postumanesimo: questa "gioventù beata e bruciata", come suggerisce il sottotitolo del penultimo capitolo, condanna le nuove generazioni all'immaturità affettiva e psichica, riducendole a semplici oggetti da esibire invece che persone da crescere e formare.
In un periodo storico in cui la critica saggistica e letteraria sembra soffrire di una profonda afasia, Non fu l'amore. I nuovi volti della passione di Mattia Morrettasi presenta come una boccata d'ossigeno: interroga, provoca e soprattutto illumina, offrendo spunti di riflessione e stimolando un autentico pensiero critico.
***
Per approfondimenti su altri libri di Mattia Morretta:
Pensavo l'altra sera che non c'è mai stata un'autobiografia di una donna. Niente che possa essere paragonato a Rousseau. Suppongo che castità e modestia siano state la ragione. Ora, perché non dovresti essere non solo la prima donna a scrivere un'opera, ma anche la prima a raccontare la verità su se stessa? Ma solo il grande artista può dire la verità. Mi piacerebbe un'analisi della tua vita sessuale, come fece Rousseau con la sua. Più introspezione. Più intimità.
Virginia Woolf in una lettera all'amica Ethel Smyth, 24 dicembre 1940
Sembrava che un'ombra giacesse sulla pagina. Era una barra scura e dritta, un'ombra che aveva la forma della lettera "I". Si cominciava a spostarsi da una parte all'altra per cercare di cogliere un frammento del paesaggio dietro di essa. Che fosse davvero un albero o una donna che camminava, non ne ero del tutto sicuro. Si veniva sempre richiamati indietro alla lettera "I". Si cominciava a essere stanchi di quell’"I". Non che quell’"I" non fosse rispettabile; onesta e logica; dura come un guscio di noce, e levigata per secoli da buoni insegnamenti e da una buona alimentazione. Rispetto e ammiro quell’"I" dal profondo del cuore. Ma – qui voltai una o due pagine, cercando qualcosa – il peggio è che, nell'ombra della lettera "I", tutto è informe come nebbia.
Virginia Woolf , Una stanza tutta per sé
Ci sono diverse difficoltà. In primo luogo, l'enorme quantità di cose che riesco a ricordare; in secondo luogo, il numero di modi diversi in cui si possono scrivere le memorie. Essendo una grande lettrice di memorie, conosco molti modi diversi.
Riesco a ricordare la sensazione della sua mano che si infilava sotto i miei vestiti; scendendo con fermezza e costanza, sempre più in basso. Ricordo come speravo che si fermasse; come mi irrigidii e cercai di divincolarmi mentre la sua mano si avvicinava alle mie parti intime. Ma non si fermò. La sua mano esplorò anche le mie parti intime. Ricordo il risentimento, il disgusto – qual è la parola per un sentimento così muto e confuso? Deve essere stato forte, dato che lo ricordo ancora. [...] Devo essere stata vergognosa o spaventata del mio stesso corpo.
Il problema che ho accennato alla prima pagina: perché è così difficile dare un resoconto della persona a cui accadono le cose. La persona è con ogni evidenza immensamente complicata. Si consideri l’episodio dello specchio. Sebbene abbia fatto del mio meglio per spiegare perché provavo vergogna nel guardare il mio volto, sono riuscita solo a scoprire alcune possibili ragioni; potrebbero essercene altre; non credo di essere arrivata alla verità; eppure questo è un episodio semplice, ed è successo a me personalmente, e non ho alcun motivo per mentire a riguardo. Nonostante tutto ciò, le persone scrivono ciò che chiamano "vite" di altre persone; cioè raccolgono una serie di eventi e lasciano sconosciuta la persona a cui sono accaduti.
Libera, voglio essere libera Di non portare o portare un velo Truccarmi tantissimo Non depilarmi per mesi, per anni Libera, voglio essere libera Di uscire la sera, tornare da sola Senza la paura persino del tipo Della spazzatura
Di fare un figlio anche a quarant'anni Di divorziare e poi risposarmi Amare un uomo con dieci anni in meno Che mi vuole bene, bene davvero Fare l'amore, girare un porno Cambiare letto pure ogni giorno
E di morire come mi pare Non massacrata da un criminale Non dalle pietre di un titolista Né dalle carte di un penalista Dai timorati figli di Dio Che sputano merda e premono invio Sputano merda e premono invio
Della mia fica farò moneta O simulacro di nuova vita Delle mie mani farò cantieri O fragilissimi tulipani
Della mia vita farò una bandiera Che brillerà nella notte scura Della mia vita farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera
Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera
Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera
Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera Che brillerà nella notte nera Della mia fica farò una bandiera
Libera, prima o poi sarò libera Quando la guerra sarà finita Ritorneremo tutte alla vita
Le
donne hanno un'altra opzione. Possono aspirare ad essere sagge, non solo
simpatiche; ad essere competenti, non solo utili; ad essere forti, non solo
graziose; ad essere ambiziose per se stesse, non solo in relazione con uomini e
creature piccole. Possono lasciarsi invecchiare in modo naturale e senza
imbarazzo, protestando attivamente e disobbedendo alle convenzioni che derivano
dal doppio standard di questa società sull'invecchiamento. Anziché cercare di
essere ragazze, ragazze finché è possibile, e, alla fine, in anziane oscene,
possono diventare donne molto prima e restare adulte attive godendo molto più a
lungo della lunga vita erotica d cui sono capaci. Le donne dovrebbero
permettere ai loro volti di mostrare la vita che hanno vissuto. Le donne dovrebbero
dire la verità.
Susan
Sontag, Sulle donne (con laprefazione di Benedetta Tobagi, Einaudi 2024)
Ils étaient quelques-uns qui vivaient dans la nuit En rêvant du ciel caressant
Ils étaient quelques-uns qui aimaient la forêt Et qui croyaient au bois brûlant L’odeur des fleurs les ravissait même de loin La nudité de leurs désirs les recouvrait
Ils joignaient dans leur cœur le souffle mesuré A ce rien d’ambition de la vie naturelle Qui grandit dans l’été comme un été plus fort
Ils joignaient dans leur cœur l’espoir du temps qui vient Et qui salue même de loin un autre temps A des amours plus obstinées que le désert
Un tout petit peu de sommeil Les rendait au soleil futur Ils duraient ils savaient que vivre perpétue
Et leurs besoins obscurs engendraient la clarté (…)
Ils n’étaient que quelques-uns Ils furent foule soudain
« Une année de plus… À quoi bon les compter ? Qui pourrait me rendre la solennité puérile des jours de l’An d’autrefois ? Ma solitude, cette neige de décembre, ce seuil d’une autre année ne me rendront pas le frisson d’autrefois, alors que dans la nuit longue je guettais le frémissement lointain, mêlé aux battements de mon cœur, du tambour municipal, donnant, au petit matin du 1er janvier, l’aubade au village endormi… Ce tambour dans la nuit glacée, vers six heures, je le redoutais, je l’appelais du fond de mon lit d’enfant, avec une angoisse nerveuse proche des pleurs, les mâchoires serrées, le ventre contracté… Ce tambour seul, et non les douze coups de minuit, sonnait pour moi l’ouverture éclatante de la nouvelle année, l’avènement mystérieux après quoi haletait le monde entier. Il passait, invisible dans le matin fermé, jetant aux murs son alerte et funèbre petite aubade, et derrière lui une vie recommençait, neuve et bondissante vers douze mois nouveaux... »