A
partire dagli anni Duemila, la narrativa italiana ha conosciuto un intenso
dibattito e una pratica sempre più ibrida tra fiction e non fiction. Questa
svolta nasce come reazione a due tendenze convergenti: da un lato la “fiction
diffusa” dei media, che ha saturato il linguaggio del reale rendendo necessaria
una riconquista di verità; dall’altro, l’eredità postmoderna, che ha svuotato i
generi letterari riducendoli a gusci formali e citazionisti.
In
questo clima, gli scrittori si sono mossi lungo un continuum tra
verosimiglianza documentaria e invenzione narrativa, rinegoziando di volta in
volta il rapporto con la realtà. Alcuni hanno scelto la via dell’esperienza
diretta e del rigore testimoniale, rifiutando esplicitamente l’invenzione e
facendo della scrittura un atto di conoscenza e di responsabilità morale. Altri
hanno difeso la finzione come strumento per avvicinarsi alla verità attraverso
l’immaginazione e la polifonia dei punti di vista. Accanto a queste posizioni
si è affermato il fenomeno dell’autofinzione, che tenta di unire verità e
invenzione in un’unica forma.
Di questo, e in maniera ancora più dettagliata e
approfondita, ne hanno parlato Morena Marsilio ed Emanuele Zinato in un lungo
saggio apparso dieci anni fa nel numero 18 della rivista Ulisse. All’epoca ci si
interrogava sulle nuove forme di poetica e le modalità con cui gli autori e le autrici del
nuovo millennio formulavano e dichiaravano la propria visione della scrittura.
Era un momento di fermento e gli interrogativi sembravano amplificare la
curiosità e il bisogno di scoprire, di sapere in quale direzione si stava
andando, anche di sperimentare, una lingua, uno stile, una nuova postura.
Fiume Oglio, argini. Località Casale. San Martino
Dall’Argine. Foto tratta dal mio libro Ritorno in Pianura, Ticinum Editore
In
questo scenario, il nodo centrale non sarebbe più stato la distinzione tra
fiction e non fiction, ma la loro fusione che, in tempi ancora più recenti, ha
aperto la strada a una nuova estetica del vero, in cui l’autore diventa non più
inventore di mondi, ma testimone di sé stesso.
Nel tempo, ha preso forza e si è sviluppata la figura dello scrittore e della scrittrice “ai margini”, che fanno dell’autenticità, del vissuto e della
propria presunta marginalità sociale o esistenziale un marchio di legittimità.
Nel
campo letterario italiano contemporaneo, questa figura “ai margini” può essere
letta perfettamente attraverso le categorie di Pierre Bourdieu, secondo cui
ogni campo culturale è uno spazio di lotta per il riconoscimento, regolato da
forme specifiche di capitale: economico, culturale, sociale e simbolico. Gli
attori del campo competono non solo per accrescere il loro capitale economico
e, talvolta, culturale ma anche e soprattutto per accrescere quello simbolico.
Il
prestigio e la legittimità si fonda, in questo contesto, sull’autenticità della propria
voce. Se chi scrive appare “vero”, vissuto, marginale o sofferente allora
riuscirà ad avere un vantaggio simbolico maggiore rispetto a chi non può
vantare un dolore eguale o una sofferenza paritaria.
È
in corso un mutamento ideologico: la società letteraria, influenzata dal
pensiero postcoloniale, dalle teorie femministe e dalla sociologia critica, ha
iniziato a considerare moralmente e culturalmente più autentica la voce
subalterna, quella che Bourdieu chiamerebbe dei dominati.
Sempre più spesso mi capita di assistere a una reinterpretazione della biografia da parte di alcuni scrittori e
scrittrici che accentuano le difficoltà economiche, le origini periferiche, le
umiliazioni subite, anche quando la loro traiettoria reale è quella di chi ha
avuto accesso a capitale culturale, relazioni e contesti sociali favorevoli.
Non si tratta di menzogna consapevole, almeno non sempre. Spesso è una forma di
adattamento alle regole del campo, una gestione strategica della propria
immagine per accrescere quel capitale simbolico di cui sopra, ottenere
legittimità in un sistema che penalizza, o potrebbe penalizzare, il privilegio.
Alcune
scuole di scrittura nate negli ultimi anni, e che hanno pienamente individuato e
interpretato questi codici, sono diventate luoghi di riproduzione di questo capitale
simbolico e culturale. Si presentano come spazi democratici di accesso al mondo
editoriale, ma in realtà selezionano chi già possiede determinate risorse:
tempo, denaro, familiarità con i codici linguistici e culturali richiesti.
Questi ambienti formano un habitus letterario tipicamente
medio-borghese, che poi viene mascherato con un discorso di apparente
marginalità per ottenere riconoscimento simbolico.
Parallelamente,
il trauma è diventato una vera e propria merce narrativa. Di questo ne ha parlato Maura Baldini in un articolo su Pangea molto discusso.
Chi non dispone di un
trauma “spendibile” tende a costruirne uno letterariamente, reinterpretando
episodi minori in chiave drammatica per generare empatia e prestigio morale. Il
dolore, in questo senso, diventa una valuta simbolica nel mercato culturale.
Tutto
ciò si traduce, rifacendomi nuovamente ai termini di Pierre Bourdieu, in una
conversione di capitale. Il capitale culturale viene trasformato in capitale
simbolico attraverso la rappresentazione dell’autrice o dell’autore di turno come
outsider o vittima del sistema.
È una mossa di sopravvivenza nel nuovo regime
del riconoscimento, dove la borghesia letteraria non può più dirsi borghese
senza perdere legittimità.
Paradossalmente, questa strategia rischia di obnubilare
le vere voci subalterne, quelle che davvero provengono da contesti svantaggiati
e che spesso restano escluse dai circuiti editoriali. I falsi outsider occupano
il posto simbolico destinato a chi outsider lo è davvero, saturando il discorso
dell’autenticità e rendendolo una finzione condivisa.
Fingere
di non avere ciò che si ha è diventato un modo per apparire più autentici in un
mondo (editoriale e non solo) che diffida sempre più del privilegio. È la forma
più sottile e contemporanea di distinzione: quella in cui il privilegio, invece
di essere ostentato, si dissimula per continuare a funzionare.
E
in tutto questo, mi chiedo (e vi chiedo) quando la sincerità diventa una posa, è
ancora possibile credere all’autenticità letteraria?