mercoledì 12 novembre 2025

L’autenticità come travestimento. Quando la borghesia letteraria si reinventa proletaria

A partire dagli anni Duemila, la narrativa italiana ha conosciuto un intenso dibattito e una pratica sempre più ibrida tra fiction e non fiction. Questa svolta nasce come reazione a due tendenze convergenti: da un lato la “fiction diffusa” dei media, che ha saturato il linguaggio del reale rendendo necessaria una riconquista di verità; dall’altro, l’eredità postmoderna, che ha svuotato i generi letterari riducendoli a gusci formali e citazionisti.


In questo clima, gli scrittori si sono mossi lungo un continuum tra verosimiglianza documentaria e invenzione narrativa, rinegoziando di volta in volta il rapporto con la realtà. Alcuni hanno scelto la via dell’esperienza diretta e del rigore testimoniale, rifiutando esplicitamente l’invenzione e facendo della scrittura un atto di conoscenza e di responsabilità morale. Altri hanno difeso la finzione come strumento per avvicinarsi alla verità attraverso l’immaginazione e la polifonia dei punti di vista. Accanto a queste posizioni si è affermato il fenomeno dell’autofinzione, che tenta di unire verità e invenzione in un’unica forma. 

Di questo, e in maniera ancora più dettagliata e approfondita, ne hanno parlato Morena Marsilio ed Emanuele Zinato in un lungo saggio apparso dieci anni fa nel numero 18 della rivista Ulisse. All’epoca ci si interrogava sulle nuove forme di poetica e le modalità con cui gli autori e le autrici del nuovo millennio formulavano e dichiaravano la propria visione della scrittura. Era un momento di fermento e gli interrogativi sembravano amplificare la curiosità e il bisogno di scoprire, di sapere in quale direzione si stava andando, anche di sperimentare, una lingua, uno stile, una nuova postura.


Fiume Oglio, argini della località Casale. San Martino Dall’Argine

              Fiume Oglio, argini. Località Casale. San Martino Dall’Argine. Foto tratta dal mio libro Ritorno in Pianura, Ticinum Editore


In questo scenario, il nodo centrale non sarebbe più stato la distinzione tra fiction e non fiction, ma la loro fusione che, in tempi ancora più recenti, ha aperto la strada a una nuova estetica del vero, in cui l’autore diventa non più inventore di mondi, ma testimone di sé stesso.

 

Nel tempo, ha preso forza e si è sviluppata la figura dello scrittore e della scrittrice “ai margini”, che fanno dell’autenticità, del vissuto e della propria presunta marginalità sociale o esistenziale un marchio di legittimità.

 

Nel campo letterario italiano contemporaneo, questa figura “ai margini” può essere letta perfettamente attraverso le categorie di Pierre Bourdieu, secondo cui ogni campo culturale è uno spazio di lotta per il riconoscimento, regolato da forme specifiche di capitale: economico, culturale, sociale e simbolico. Gli attori del campo competono non solo per accrescere il loro capitale economico e, talvolta, culturale ma anche e soprattutto per accrescere quello simbolico.


Il prestigio e la legittimità si fonda, in questo contesto, sull’autenticità della propria voce. Se chi scrive appare “vero”, vissuto, marginale o sofferente allora riuscirà ad avere un vantaggio simbolico maggiore rispetto a chi non può vantare un dolore eguale o una sofferenza paritaria.

 

È in corso un mutamento ideologico: la società letteraria, influenzata dal pensiero postcoloniale, dalle teorie femministe e dalla sociologia critica, ha iniziato a considerare moralmente e culturalmente più autentica la voce subalterna, quella che Bourdieu chiamerebbe dei dominati.

 

Sempre più spesso mi capita di assistere a una reinterpretazione della biografia da parte di alcuni scrittori e scrittrici che accentuano le difficoltà economiche, le origini periferiche, le umiliazioni subite, anche quando la loro traiettoria reale è quella di chi ha avuto accesso a capitale culturale, relazioni e contesti sociali favorevoli. 

Non si tratta di menzogna consapevole, almeno non sempre. Spesso è una forma di adattamento alle regole del campo, una gestione strategica della propria immagine per accrescere quel capitale simbolico di cui sopra, ottenere legittimità in un sistema che penalizza, o potrebbe penalizzare, il privilegio.


Alcune scuole di scrittura nate negli ultimi anni, e che hanno pienamente individuato e interpretato questi codici, sono diventate luoghi di riproduzione di questo capitale simbolico e culturale. Si presentano come spazi democratici di accesso al mondo editoriale, ma in realtà selezionano chi già possiede determinate risorse: tempo, denaro, familiarità con i codici linguistici e culturali richiesti. Questi ambienti formano un habitus letterario tipicamente medio-borghese, che poi viene mascherato con un discorso di apparente marginalità per ottenere riconoscimento simbolico.


Parallelamente, il trauma è diventato una vera e propria merce narrativa. Di questo ne ha parlato Maura Baldini in un articolo su Pangea molto discusso. 

Chi non dispone di un trauma “spendibile” tende a costruirne uno letterariamente, reinterpretando episodi minori in chiave drammatica per generare empatia e prestigio morale. Il dolore, in questo senso, diventa una valuta simbolica nel mercato culturale.


Tutto ciò si traduce, rifacendomi nuovamente ai termini di Pierre Bourdieu, in una conversione di capitale. Il capitale culturale viene trasformato in capitale simbolico attraverso la rappresentazione dell’autrice o dell’autore di turno come outsider o vittima del sistema. 

È una mossa di sopravvivenza nel nuovo regime del riconoscimento, dove la borghesia letteraria non può più dirsi borghese senza perdere legittimità. 

Paradossalmente, questa strategia rischia di obnubilare le vere voci subalterne, quelle che davvero provengono da contesti svantaggiati e che spesso restano escluse dai circuiti editoriali. I falsi outsider occupano il posto simbolico destinato a chi outsider lo è davvero, saturando il discorso dell’autenticità e rendendolo una finzione condivisa.


Fingere di non avere ciò che si ha è diventato un modo per apparire più autentici in un mondo (editoriale e non solo) che diffida sempre più del privilegio. È la forma più sottile e contemporanea di distinzione: quella in cui il privilegio, invece di essere ostentato, si dissimula per continuare a funzionare.

E in tutto questo, mi chiedo (e vi chiedo) quando la sincerità diventa una posa, è ancora possibile credere all’autenticità letteraria?


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