lunedì 10 gennaio 2022

Nathalie Léger tra fiction e autofiction in Suite per Barbara Loden e L'abito bianco


In Una diga sul Pacifico Marguerite Duras racconta la storia della madre, una figura complessa, ambigua, temuta e desiderata, strana e straniera al tempo stesso come la definisce Wafa Ghorbel. Saranno le parole di Duras a far rivivere la madre, a dare voce all'ingiustizia subita, ai torti masticati a fatica, alla rabbia. E non è stato abbastanza Una diga sul Pacifico, sono serviti altri libri mentre l'immagine materna attraversava le pagine, un infinito riflettersi che passava dal ricordo allo scritto, dalla memoria alla parola.


«Può darsi che il linguaggio sia stato inventato proprio per questo scopo: per denunciare un'ingiustizia, per gridare a favore di qualcun altro». A parlare è Nathalie Léger a proposito della scrittura di Duras e del racconto materno arrivato a noi con Un Barrage contre le Pacifique.


Attraverso le parole di Léger, mi accorgo che nelle trame della vita altrui si cerca sempre qualcosa che possa, in un qualche modo, spiegare la nostra vita, qualcosa nel quale potersi riconoscere e riflettere. Cosa prova una donna quando si riconosce nella storia di un'altra donna?


Una donna è in silenzio, non può parlare, non ha potuto parlare, non le hanno dato il tempo. Qualcuno l'ha giudicata pazza, qualcun altro ha infangato il suo nome, altri hanno raccontato storie su di lei inventando particolari e aneddoti. Ma chi è questa donna in silenzio? Chi è davvero? Chi si può arrogare, oggi, il diritto di parlare per lei?


Ho solo queste domande mentre mi addentro nei libri di Nathalie Léger: Suite per Barbara Loden e L'abito bianco (entrambi pubblicati in Italia da La Nuova Frontiera).


Una donna interpreta un ruolo che ha scritto lei stessa, in un film da lei diretto, un film che si basa sulla vita di un'altra donna che non ha conosciuto ma nella quale si riconosce. Il film è Wanda, la regista è Barbara Loden. Uscirà nel 1970. In concorso alla trentunesima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ottiene il Premio Pasinetti come miglior film straniero. In seguito alla proiezione, Marguerite Duras dirà che in questa pellicola accade un miracolo: «normalmente c'è una distanza tra rappresentazione e testo, soggetto e azione. Qui quella distanza è annullata». Quasi trent'anni dopo, Nathalie Léger racconta di Wanda attraverso gli occhi di Barbara Loden: Suite per Barbara Loden. Leggendolo, può accadere di percepire il contrario. Lo sguardo di Wanda delinea l'identità di Loden.


«Devi essere ascoltata qualunque cosa fai», suggerirà Elia Kazan a Barbara Loden. «Wanda l'ho fatto per questo. È un modo per confermare che esisto».


Dopo la morte di Loden, durante un'intervista nella hall di un albergo nel centro di Parigi, Duras dirà a Kazan: «Wanda è un film su qualcuno… e quando dico qualcuno, parlo di qualcuno che abbiamo isolato, che abbiamo visto nella sua essenza, scardinato dal contesto sociale in cui lo abbiamo trovato. Credo che resti sempre qualcosa dentro, dentro di sé, che la società non ha intaccato, qualcosa di inviolabile, di impenetrabile, di decisivo… c'è una coincidenza immediata e definitiva tra Barbara Loden e Wanda».

Nello sguardo di Wanda, Léger si accorge di vedere gli occhi di sua madre, quel particolare modo di «scrutare il viso impassibile dell'uomo per capire e anticipare». È tra le pieghe di quella fissità inquieta che Léger intravede il volto materno, la sua esitazione, l'assurdità dei gesti, la fuga straziante, lo scoramento, lo sconforto, la stanchezza. E poi la sua storia. Léger si chiede perché sia ​​così attratta da Wanda, con la quale ha poco in comune. A differenza di Wanda, lei non è mai stata una senzatetto, non è mai stata portata in tribunale e accusata di trascurare la sua famiglia, non ha mai perso l'affidamento dei suoi figli, non è mai dipesa da un uomo per soldi. «Eppure mi è successo, una volta, l'unica, e sufficiente, di non sapere dire di no, di non osarlo dire, di cedere alla minaccia di morte».


La donna in silenzio è Wanda (che nella realtà si chiama Alma Malone) seduta in tribunale, è Barbara Loden mentre parla di sé come di un'ombra senza valore, senza dignità. La donna in silenzio è la madre di Léger che scappa da un dolore incredibile, da un vuoto dell'anima, scappa dall'abbandono e dall'umiliazione.  La donna in silenzio è la stessa autrice in ascolto del dolore materno e delle donne nelle quali riconosce quel dolore, quella stessa perdizione.


Nathalie Léger rompe il silenzio. Racconta. Un racconto che dipende «forse da questo grande arazzo in sala da pranzo e che incombe sui nostri pasti» si legge ne L'abito bianco. Di nuovo, una donna parla di un'altra donna che non ha conosciuto ma nella quale si riconosce. Tra le pagine di questo libro leggiamo la storia di Pippa Bacca, l'artista milanese brutalmente uccisa nel 2008 in un boschetto tra Izmit e Gebze durante un viaggio dall'Italia a Gerusalemme intrapreso vestendo un abito da sposa, un viaggio in autostop dal valore simbolico. Alla domanda perché in autostop, Pippa Bacca risponde che è un modo di «fidarsi del prossimo. Per dimostrare che, quando ci si fida, non si può che ricevere del bene». Voleva accogliere, Pippa Bacca. Voleva portare un messaggio di fiducia e pace, aprire le braccia all'altro, «sposare il mondo intero… un atto di suprema follia, che è quella dei santi» come ha detto Alda Merini che a Pippa Bacca ha dedicato una poesia: «Ti sei vestita di bianco / ma siccome la tua anima mi sente / ti vorrei dire che la morte / non ha la faccia della violenza / ma che è come un sospiro di madre / che viene a prenderti dalla culla / con mano leggera». È la madre di Pippa Bacca che Nathalie Léger vuole intervistare per dare corpo e linfa al soggetto del suo libro. Quell'intervista non avverrà. Léger prenderà un treno per Nizza il giorno stesso del suo arrivo a Milano, poche ore dopo aver varcato l'uscita della stazione centrale.


In questa storia c'è un'altra donna ed è la madre di Léger. Un'apparizione in Suite per Barbara Loden, il secondo soggetto ne L'abito bianco. È lei che incalza la figlia, domanda, chiede, suggerisce modifiche al libro che sta scrivendo. Propone un'altra storia: la sua. La vita della madre è anche quella della figlia e dal momento che «non hai esperienza del tuo soggetto» meglio scrivere di qualcosa che conosce, qualcosa di cui ha fatto esperienza. Ma Léger non vuole salvare i ricordi della madre dall'oblio. Vuole lasciarsi alle spalle il passato, illudendosi di trovare una certa idea di verità («ma come è fatta? Sta tra l'apparire e lo scomparire» diceva Godard riportato in epigrafe) in ciò che non ha vissuto, che può essere inventato, rielaborato, romanzato utilizzando ciò che gli altri hanno vissuto.


È nella fuga dal suo passato che Léger fa i conti con grumi di parole rimaste sul fondo dei ricordi della madre. Lì si annidano l'umiliazione subita, il rimpianto dei non detti, la tragedia del silenzio. La madre diventa la storia. Pochi oggetti per descriverla. L'abito da sposa immacolato, mostrato alla figlia in cucina, e il faldone, quello che contiene la verità. Alla figlia il compito di trasformarlo in un memoriale di parole per poi tornare al suo soggetto iniziale, Pippa Bacca.

 

Manca la traduzione italiana di Exposition per completare il trittico di Nathalie Léger. Tre opere che si completano a vicenda e che uniscono la biografia all'autobiografia, l'arte al cinema, la narrativa alla saggistica.


Si ritorna sempre alla stessa sofferenza, a quell'impasto atavico che alita sulla nostra vita riscaldando i giorni. Come Duras, anche a Léger non è bastato un libro. Aveva bisogno di più spazio e più parole per raccontare la storia di sua madre e delle donne nelle quali ha ritrovato i suoi occhi e le sue esitazioni, la sua impotenza e la sua lacerazione. Con determinazione Léger ha guardato in faccia le sue ossessioni e con coraggio le ha chiamate con il loro nome.

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