martedì 29 luglio 2025

La solitudine della scrittura. Marguerite Duras, Scrivere

Estratto da Scrivere di Marguerie Duras (Feltrinelli, 1994, traduzione di Lionella Prato Caruso)



La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora. Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.

Trovarsi in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro. Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare. Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree elementari: ortografia, senso.

Nella vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio è scrivere. Dunque, è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo si è sempre saputo.

Finché c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.

Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.

Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di quello stesso libro.

Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo.

Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne.

Non so che cos’è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti.


lunedì 28 luglio 2025

Il cuore messo a nudo. Scrittura e identità in Mitologia d’infanzia di Laura Bocci

 

“Je peux commencer Mon coeur mis à nu n’importe où, n’importe comment, et le continuer au jour le jour, suivant l’inspiration du jour et de la circonstance, pourvu que l’inspiration soit vive”: così l’inizio di quel ritratto intimo e diaristico baudelairiano che trova la propria ragione d’essere nella narrazione di un cuore esposto, messo a nudo, come o dove non ha importanza, ciò che conta è che sia riflessione di un’urgenza che parte dal sé. Un progetto che pone al centro l’io e che anticipa di gran lunga le riflessioni sull’autobiografia che attraverseranno il Novecento. Penso, ad esempio, ai Diari di Franz Kafka, dove il frammento, l’epifania verbale, si rivelano nella miriade di appunti, riflessioni, annotazioni, che si mescolano a progetti di racconti e lavori da scrivere. Scrittura nella scrittura e intanto lautobiografia, come l'avrebbe intensa Philippe Lejeune, si sfalda sotto ai colpi della sua stessa materia; ma penso anche a L’analfabeta di Ágota Kristóf, in cui la materia autobiografica si intreccia alla lingua straniera, all’esilio, alla perdita dell’infanzia e della patria, in cui l’io si racconta per sottrazione, come se la verità del sé potesse emergere solo nel vuoto lasciato dalle parole non dette. E proseguendo in questa direzione non posso fare a meno di ritornare con la memoria a Pierre Bourdieu, Questa non è unautobiografia: avvertimento e titolo al tempo stesso della sua opera postuma, che decostruisce lillusione di un sé trasparente e lineare, sostituendolo con una narrazione stratificata, attraversata dalle strutture sociali e dalle contingenze storiche. “Io non esisto. Io coesisto”: le parole di Serge Doubrovsky risuonano e illuminano l’identità trasformandola in luogo in cui si coagulano e si disfano continuamente le immagini del sé, in bilico tra verità e finzione, tra memoria e desiderio.


È in questa zona liminale, tra identità e perdita, tra racconto e interrogazione, che si inserisce Mitologia d’infanzia di Laura Bocci (Vallecchi, 2021) e che si situa con consapevolezza al crocevia tra vita e letteratura. Fin dalle prime pagine è esplicitato l’intento della scrittrice: Bocci non tenta solo di rievocare la propria infanzia, ma cerca di sigillarla nel linguaggio, di restituirle forma attraverso una narrazione che diventa costruzione, stratificazione. La possibilità di raccontare l’io attraverso la scrittura pone, da subito, delle domande alle quali, con la tenacia e la costanza di un’archeologa della letteratura, Bocci proverà a rispondere: 

“La prima cosa da chiedersi è se la bambina sia mai veramente esistita, e se si possa affermare che abbia avuto una sua piccola storia da zero a nove anni, sullo sfondo degli eventi che erano accaduti ad altre persone nel passato, quando lei ancora non c’era (non-essere-ancora era una cosa davvero inimmaginabile) e che durante la sua infanzia via via accadevano agli adulti che la circondavano. Lei bambina e l’adulta che poi è diventata si sono lasciate tanto tempo fa e mai più incontrate, se non ora qui, in queste pagine. C'è una continuità, tra loro? L'essenza della donna che oggi è esisteva già nella bambina di allora? Cosa è rimasto, di lei, grazie alla sua forza e alla sua inconscia ma tenace resistenza? La vita ha il suo percorso, uguale per tutti, nascita sviluppo e morte, lei invece è rimasta fissata nell'immutabile limbo senza tempo dell'infanzia, mitologico ed eroico”. 



In questo racconto, la storia personale della bambina di ieri si fonde con i ricordi della donna di oggi. Ed è proprio in questa sovrapposizione di voci e tempi che si struttura il nucleo profondo dell’opera: un’indagine sull’infanzia che affonda le radici nell’Italia degli anni Cinquanta, ma che poi risale ancora più indietro, nei racconti delle nonne, nella memoria orale del parentado, in una genealogia femminile che diventa insieme origine e orizzonte. È proprio questa genealogia femminile a svolgere un ruolo chiave nella narrazione. Sono le donne, con le loro storia private, i loro “momenti di essere”, a orientare il percorso della protagonista e, con lei, quello di chi legge. Alcune tentano, chi con più coraggio, chi con esitazione o rinuncia, di far sentire la propria voce; altre restano confinate in un destino che non hanno scelto. Ma tutte, in un modo o nell’altro, aprono uno spazio di riflessione sulla condizione femminile, molti anni prima che il femminismo la tematizzasse apertamente. Ed è in questo spazio, carsico ma potentissimo, che la scrittura di Bocci si innesta, facendo emergere dal fondo della memoria individuale una coralità sommersa, capace ancora oggi di interrogarci.


Mitologia d’infanzia si muove lungo la sottile linea che separa e insieme unisce l’intimo e l’altro, la memoria individuale e le forme storiche del vivere collettivo. L’intreccio di scrittura e fotografia, di reperti cartacei e immagini d’epoca, è un dispositivo di scavo, un metodo di ricostruzione che avvicina l’opera al pensiero di Pierre Bourdieu, per il quale “la storia dell’individuo non è altro che una certa specificazione della storia collettiva del suo gruppo o della sua classe”. 

Mitologia d’infanzia non rinuncia all’“io”, ma lo immerge in un contesto, in un tessuto sociale e in una genealogia familiare e culturale. In questa prospettiva, la scrittura autobiografica si fa auto-socio-biografia, secondo la definizione di Annie Ernaux, e il racconto personale fa emergere la singolarità come parte viva della storia di tutti. 


Ed ecco che risuona nuovamente il canto di Baudelaire, quel cuore messo a nudo, quel cuore pulsate che in Mitologia d’infanzia si fa nucleo di partenza e d’arrivo di una storia più grande che dall“io” sconfina nel “noi”, una storia in cui, citando Georges Perec, “il tempo ritrovato si confonde con il tempo perduto” e il libro diventa “la misura del tempo della scrittura” che gioca con il tempo dell’infanzia, “mitologico ed eroico”.

Scrivere il reale: Annie Ernaux e l’estetica del giusto

Nel maggio 2023, Annie Ernaux è stata intervistata da Matthias Dressler-Bredsdorff a Copenaghen, in un incontro che esplora profondamente la sua scrittura e il suo approccio alla letteratura. In questa intervista, la Premio Nobel per la letteratura 2022 condivide il suo punto di vista sulla scrittura come atto politico e personale, incentrato sulla memoria, la realtà e la classe sociale.



Ernaux afferma che non è il coraggio a spingerla a scrivere di ciò di cui altri non parlano, ma il desiderio di esplorare territori non ancora sondati, spingendosi oltre la vergogna e l’imbarazzo. La sua scrittura, che spesso esplora le esperienze personali, nasce da un impegno sociale profondo, il cui scopo è dare voce a una classe sociale che difficilmente trova spazio nei racconti ufficiali. Come dice lei stessa, “se l’ho vissuto, allora esiste”, e per questo non è vergognoso parlarne.

Proveniente da una famiglia di operai e contadini, Ernaux ha iniziato a scrivere durante la sua giovinezza, spinta dalla necessità di difendere la sua classe sociale. La sua scrittura, “violenta” e “diretta”, nasce dal bisogno di esprimere una realtà priva di abbellimenti, in grado di mantenere un legame profondo con la verità dei fatti. In questo senso, Annie Ernaux rifiuta qualsiasi tentativo di rendere la sua scrittura “bella”, preferendo cercare piuttosto di renderla “giusta”. La sua scelta di utilizzare uno stile “fattuale” e una sintassi precisa (chirurgica, etnologica) non è un tentativo di distorcere la realtà, ma di rappresentarla nella sua essenza più pura, senza restrizioni emotive.



Nel corso dell’intervista, Annie Ernaux riflette anche sulla sua evoluzione come scrittrice e sul ruolo che la scrittura ha avuto nella sua vita. Dopo aver pubblicato il suo primo libro, Gli armadi vuoti, ha iniziato a scrivere delle sue esperienze familiari e sociali, sempre con uno sguardo critico e lucido. La sua riflessione si è poi allargata alla posizione stessa di scrittrice: dove si trova la scrittrice nel testo? Come può una scrittrice affrontare la realtà senza perderne la forza e l’immediatezza?

In più occasioni ho scritto che la sua scrittura non è solo un atto personale, ma anche un atto politico, in cui le parole e le scelte linguistiche diventano strumenti di lotta e di denuncia di genere e di classe. Questa intervista rappresenta un’altra importante occasione per entrare nel mondo di Annie Ernaux, per scoprire il suo modo di fare letteratura come atto di resistenza e di verità.

 

Il titolo dell’intervista riprende il titolo di un’altra famosa intervista poi divenuta un libro: L’écriture comme un couteau. Entretien avec Frédéric-Yves Jeannet. Si può leggere la mia intervista a Frédéric-YvesJeannet e l’approfondimento che ho scritto sul suo libro per la rivista Collateral Revue. 

venerdì 25 luglio 2025

Alle Giornate degli Autori un ritratto inedito di Annie Ernaux firmato da Claire Simon

Alle Giornate degli Autori 2025, sezione autonoma e indipendente della Mostra del Cinema di Venezia, arriva uno degli appuntamenti più intensi e significativi di questa edizione: la proiezione in evento speciale, fuori concorso, del documentario Écrire la vie – Annie Ernaux racontée par des lycéennes et des lycéens, firmato dalla regista francese Claire Simon. Il docu-film ha il merito di reinterpretare Annie Ernaux, prima donna francese a ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 2022, attraverso la voce, i corpi e le coscienze degli adolescenti di oggi. 



Écrire la vie propone un esperimento di trasmissione generazionale: studenti e studentesse delle scuole superiori leggono pubblicamente brani tratti dai testi più emblematici di Ernaux, dando vita a una messa in scena collettiva della memoria, della scrittura e dell’esperienza femminile e sociale. Claire Simon pone al centro lo sguardo della gioventù, documentando come i testi di Ernaux vengano insegnati, accolti e vissuti oggi, e mostrando la letteratura come strumento di risveglio e trasformazione delle coscienze.


Sessualità, patriarcato, classe sociale, identità, aborto: sono solo alcuni dei temi dell'opera letteraria di Annie Ernaux, temi che continuano a pulsare e a far sentire la loro urgenza tanto da aver contaminato nuovi ambiti culturali (da quelli teatrali a quelli cinematografici). Riprendendo i liceali che commentano e si appropriano delle parole di Ernaux, Simon traccia anche un ritratto della gioventù contemporanea e del suo rapporto con la letteratura che diventa esperienza viva e politica.


Il documentario, che vedrà la presenza della stessa Annie Ernaux, mette così in luce la portata universale della sua scrittura, che consente a ciascuno di esplorare la propria intimità e di riconnetterla a questioni sociali più ampie. L’opera si inserisce nel solco dei lavori di storici e storiche che utilizzano l’opera di Ernaux come fonte preziosa per comprendere la società francese della seconda metà del Novecento, in particolare la dominazione maschile, la migrazione sociale (transfuga di classe) e il vissuto delle donne.



***

Claire Simon, che ha recentemente firmato Apprendre (2024), Notre corps (2023) Le Fils de l'épicière, le Maire, le Village et le Monde (2020). Ha inoltre realizzato diversi lungometraggi tra cui Vous ne désirez que moi (2021) tratto da Je voudrais parler de Duras, de Yann Andréa et Michèle Manceaux.





giovedì 17 luglio 2025

La spiaggia di Trouville di Claude Monet

La spiaggia a Trouville 

Claude Monet, 1870

National Gallery di Londra




Claude Monet ha realizzato diversi dipinti a Trouville-sur-Mer, la località balneare della Normandia, dove soggiornò nell’estate del 1870 insieme alla moglie Camille Doncieux. Questo periodo fu particolarmente fecondo per Monet, che, ispirato dalla luce dell’Atlantico, dalle atmosfere marine e dalla vita borghese della villeggiatura, dipinse opere luminose, ariose e vibranti, tipiche dell'impressionismo nascente.

Nel dipinto, la spiaggia di Trouville riflette il vento salmastro e luce che si rifrange sulla sabbia. La tela è percorsa da pennellate rapide e leggere. Le due figure femminili siedono con grazia sotto un parasole, il volto rivolto al mare, gli occhi forse persi in un pensiero. I loro abiti ondeggiano lievi. Il cielo, screziato di nubi, vibra di azzurri diafani e grigi perlati, mentre la sabbia, animata da ombre e riflessi, sembra ancora calda del passaggio dei villeggianti. Le pennellate di Monet raccontano il movimento dell’aria, l’effimero della luce, la sospensione del tempo. Non c'è posa, non c'è artificio. Solo il presente, colto nella sua poesia più sottile.

mercoledì 16 luglio 2025

lunedì 14 luglio 2025

In ricordo di Natalia Ginzburg

“Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.”


Natalia Ginzburg nasceva il 14 luglio del 1916



venerdì 11 luglio 2025

A trent'anni dal genocidio di Srebrenica. Cosa rimane e cosa ne sarà

Ho fatto ricorso a una vecchia fotografia, di quelle piegate in due e custodite per anni nel portafoglio, tra la plastica opaca e la fodera consumata. Era uscita da una macchina fotografica che non esiste più, parte di un rullino andato perduto. Nel caso specifico, la foto è stata piegata in più parti e ora le sue pieghe sembrano appartenere al paesaggio che ritrae. Non volevo tradire la verità della scena rappresentata pertanto, diversamente da quanto ho fatto in altre occasioni, ho aperto con cautela il portafoglio, cercato la tasca nascosta, fatto scorrere la cerniera ed estratto quel documento, reperto di un'epoca lontana nel tempo.


Estate 1995. Bagno Carlo 65, Rimini. Il bagnasciuga è un ammasso di corpi sudati che odora di crema solare e abbronzante Bilboa, che si muove avanti e indietro all’unisono, che entra in acqua, che gioca a racchettoni, che ascolta Think Of You di Whigfield e Memories di Netzwerk mentre la radio gracchia pubblicità locali e annuncia un bambino col costumino blu smarrito al bagno 32. In primo piano, l’obiettivo ha immortalato due bambine in posa accanto al pattino rosso. La più alta ha la mano sinistra appoggiata a uno dei remi, i capelli lunghi e scuri, una folta frangia e una treccina colorata che parte dalla radice e scende per tutta la lunghezza. Sorride senza mostrare i denti (ha un canino sporgente, se ne vergogna profondamente). L’altra ha i capelli raccolti, indossa un costume intero arancione con due fiocchi all’altezza delle spalle, la testa è reclinata e appoggiata alla spalla della bambina dai capelli lunghi e scuri. Le tiene la mano destra, sorride all'obiettivo. Ho altre foto di quell’agosto del '95 ma questa è una delle poche che ho conservato nel portafoglio. Affermo con certezza che il mese fosse agosto perché era il periodo in cui la fabbrica dove lavorava mia madre chiudeva e lei poteva permettersi (e non tutti gli anni) di fare una settimana a Rimini. A nostra insaputa, ci collocavamo nel turismo di massa iniziato negli anni '60 proprio in riviera e che ha fatto di Rimini il simbolo di questo tipo di turismo. 

Dalla primavera, appena mia madre prenotava una camera alla pensione Valverde, aspettavo con ansia che arrivasse quella settimana di ferie che mi avrebbe portata lontano dal caldo umido della Pianura Padana. 

Ma era luglio a rappresentare il mese dell’attesa. E quel luglio del 1995 coincideva anche con il mio decimo compleanno. Intanto bramavo Rimini, quella palude bollente di anime, come l’aveva definita, esattamente dieci anni prima, Pier Vittorio Tondelli nel suo Rimini


Non sapevo che in quel luglio infuocato c’erano altri bambini che speravano, bramavano, che attendevano. Non una vacanza al mare, non le ferie in riviera, non le treccine colorate o la cassetta da inserire nel walkman. 

Quello che attendevano, ciò in cui speravano era la fine della guerra, del massacro, il ricongiungimento con i propri fratelli e le proprie sorelle, con le madri e i padri. Erano i bambini di Srebrenica. E io, che avrei posato davanti al pattino rosso del Bagno 65 di Rimini con un sorriso abbozzato, ignara della Storia, non sapevo nemmeno che esistessero. 


In quel luglio torrido mentre compravo Cioè e collezionavo i poster al suo interno (la gioia nel trovare il maxi-poster di Leonardo Di Caprio e attaccarlo al muro contravvenendo alle regole di casa), i bambini di Srebrenica venivano trucidati dal generale Ratko Mladic, quei bambini che il generale, come ha ricordato di recente sul Corriere della Sera Francesco Battistini, “accarezzava prima di mandarli sottoterra”. E ancora, scrive Battistini: "Nel luglio 1995, in soli otto giorni, vennero uccise quasi 10mila persone. Il mondo restò a guardare, a partire dai Caschi blu Onu che avrebbero dovuto proteggere l’enclave musulmana". 




Valigia Blu fa un passo indietro e ripercorre, a ritroso, ciò che accadde. "Il genocidio di Srebrenica che ha sconvolto tutto il mondo è avvenuto in una zona considerata sicura e protetta. Nel 1992 Srebrenica fu assediata dalle forze serbe sotto il comando di Ratko Mladić, all'epoca Capo di Stato Maggiore dell'esercito serbo. Le condizioni umanitarie all'interno della città erano estremamente difficili, mancavano i beni primari, il cibo, l’acqua, le medicine. Nel 1993 le Nazioni Unite designarono Srebrenica come "area protetta", sotto la tutela di un contingente olandese delle Forze di protezione delle Nazioni Unite (United Nations Protection Force -UNPROFOR), ma nel luglio 1995, le forze serbe, altamente equipaggiate, riuscirono a sfondare le difese di Srebrenica e, nonostante la presenza di truppe dell'ONU, la città fu rapidamente conquistata. In poche ore, i soldati serbi separarono gli adulti di sesso maschile, principalmente uomini e ragazzi, dalle donne, dagli anziani e dai bambini. Queste azioni contribuirono ulteriormente a disumanizzare le vittime, rendendole oggetto di crudeltà senza pietà. A partire dal 11 luglio, i soldati serbi iniziarono a massacrare in maniera indiscriminata gli uomini bosgnacchi". 


Davanti a me ho solamente l’immagine di quella bambina dai lunghi capelli scuri che, nei due anni precedenti, porta a scuola beni di prima necessità e li raccoglie in grandi scatoloni, insieme ai suoi compagni classe e con l’aiuto delle insegnanti, per poi spedirli ai "bisognosi dei Balcani". 

Dei bambini di Srebrenica e delle loro famiglie, non conservo alcun ricordo. 


Continua Valigia Blu: "Quello stesso giorno, davanti a una folla di giornalisti riuniti, il generale Ratko Mladić ha dichiarato: -Alla vigilia di un'altra grande festa serba, facciamo dono di questa città al popolo serbo. È giunto il momento di vendicarsi dei Turchi-. Quella stessa notte, circa 15.000 uomini bosniaci musulmani si radunarono nella zona di Šušnjar e Jaglići, si incamminarono nei boschi nel tentativo di raggiungere territori liberi. Più di due terzi degli uomini che intrapresero quel percorso, che sarebbe stato ricordato come La Marcia della morte, fu catturato e ucciso dall’Esercito della Repubblica Serba. Nel frattempo, la base ONU a Potočari era sovraffollata di civili. Nel momento in cui i soldati dell’esercito serbo presero il controllo del campo, senza alcuna resistenza da parte delle forze ONU, fino a 6.000 rifugiati si trovavano all’interno della base olandese, mentre oltre 20.000 persone avevano trovato riparo negli edifici industriali circostanti. Oltre alla mancanza di cibo e acqua, i civili musulmani a Potočari furono sottoposti a indicibili abusi da parte dei soldati del VRS. I sopravvissuti hanno testimoniato torture, pestaggi, stupri e uccisioni".



Lo scorso anno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a favore dell’istituzione di una Giornata annuale di ricordo del genocidio di Srebrenica del 1995. E’ stato pertanto riconosciuto l'11 luglio come Giornata internazionale della memoria del genocidio di Srebrenica. La risoluzione è stata promossa da Germania e Rwanda, mentre Serbia, Russia e Ungheria "si sono schierate apertamente contro e il presidente serbo Aleksandar Vučić ha avvertito che la risoluzione potrebbe aprire un vaso di Pandora, alimentando il separatismo della Republika Srpska. In seguito a queste affermazioni, l’Associazione delle Vittime e dei Testimoni del Genocidio ha lanciato, nell’ottobre 2024, un nuovo sito web per monitorare e documentare tutte le forme di negazione del genocidio e dei crimini di guerra in Bosnia ed Erzegovina".



Nel 2020 la regista, sceneggiatrice e produttrice Jasmila Žbanić porta al cinema Quo vadis, Aida?,  primo film a trattare direttamente del massacro di Srebrenica. Rivederlo alla luce dei fatti accaduti, delle vicissitudini e del trentesimo anniversario, con tutto ciò che sta portando con sé questa commemorazione, impone una narrazione che tenga conto dei fatti accaduti, delle ripercussioni, di ciò che è rimasto nei sopravvissuti e nelle future generazioni. 

La striscia di sangue è lunga e arriva a tutti noi.

 

lunedì 7 luglio 2025

Interior with Artist's Daughter di Vanessa Bell

Interior with Artist's Daughter è il quadro di Vanessa Bell che ritrae la figlia, Angelica, assorta nella lettura. Vanessa Bell la osserva e la ritrae, ma non da madre che guarda una figlia, da artista che riconosce nell’altra un’energia affine, una concentrazione creativa che non ha bisogno di parole.



Vanessa Bell era sposata con Clive Bell, critico d’arte e membro del gruppo di Bloomsbury, con cui aveva avuto due figli. Ma già durante la Prima guerra mondiale, i due conducevano vite sentimentali indipendenti. Vanessa si era legata al pittore Duncan Grant, anche lui parte del circolo, e dalla loro relazione era nata Angelica. La bambina crebbe a Charleston, immersa in quell’ambiente anticonvenzionale e liberissimo. Angelica era una bambina che trascorreva le giornate tra i libri, tra i fili di lana, a contatto co tele e pennelli. A Charleston, era coinvolta in un mondo privo di vincoli creativi: cucire, tessere, cantare, dipingere le veniva naturale. Sembrava nata per creare. A posteriori, si è detto che fosse “troppo dotata” in tutto ciò che faceva, al punto da non riuscire mai a scegliere una sola forma d’arte a cui dedicarsi. Qui, ogni gesto quotidiano poteva diventare arte. I bambini partecipavano alla decorazione della casa, contribuivano a dipingere le pareti, aiutavano negli studi. L’iconico murale a mo’ di “carta da parati” nella sala da pranzo fu progettato da Vanessa e Duncan, ma realizzato negli anni Quaranta anche grazie a Angelica e al fratellastro Quentin.

Vanessa incoraggiava quella ricchezza senza mai forzarla, e ciò emerge chiaramente nei ritratti che le dedicò. In questo dipinto, Angelica è colta in un gesto semplice che si trasforma in emblema di interiorità, curiosità e libertà. La madre la guarda con attenzione, ma anche con rispetto: come ha osservato la critica Sarah Milroy, Vanessa “sembra aver vissuto i suoi figli più come pari creativi che come persone a carico”.

Attraverso Interior with Artist's Daughter, Vanessa Bell restituisce il silenzio della concentrazione che si creava tralemura dellacasa di Charleston, la forza della lettura, ma soprattutto il mistero di una giovane mente già attraversata da mille mondi possibili.

sabato 5 luglio 2025

Hannah Arendt. Nessuno che impari a pensare può tornare a obbedire come faceva prima

“Una volta che hai imparato a pensare, il conformismo diventa un’abitudine difficile da indossare nuovamente. Il dubbio e l’esame critico diventano la tua guida, non per ribellione, ma per evoluzione. Nessuno che impari a pensare può tornare a obbedire come faceva prima, non per spirito ribelle, ma per l’abitudine ormai acquisita di mettere in dubbio ed esaminare ogni cosa”.

Hannah Arendt



venerdì 4 luglio 2025

Yann dans la nuit: Julie Brafman racconta la storia segreta di Yann Andréa. Dal 20 agosto in libreria per Flammarion

 

Yann Andréa è lo studente di filosofia che, come Adamov, pensa che il sogno notturno ci vendichi dalla disperazione dei giorni. È lo studente del 26 di rue Saint-Benoît, scomparso nel 2014. È sepolto al cimitero di Montparnasse accanto a colei che ha venerato per sedici anni, Marguerite Duras. È sepolto con il nome che lei gli aveva dato, quello, appunto, di Yann Andréa.

Di lui si sapeva che era stato per sedici anni il suo amante, compagno, servitore, autista, segretario, infermiere. Questo amore, lui stesso lo aveva raccontato in un libro. Ma della sua vita prima e dopo, si conosceva poco, come se fosse un uomo senza passato e senza futuro.

Julie Brafman è partita sulle tracce di questo personaggio enigmatico, fino a ritrovare, nei cassetti di un mobile, quaderni, fotografie, diari: l’archivio di un’intera vita che Yann aveva lasciato prima di sparire nella notte.

Con una scrittura elegante e avvolgente, Julie Brafman fa rivivere quest’uomo tanto singolare quanto commovente  tra le pagine di Yann dans la nuit e, intrecciando racconto, inchiesta e archivi, racconta una storia d’amore e di letteratura.


In libreria dal 20 agosto 2025.




giovedì 3 luglio 2025

Processo Grillo, l’Osservatorio STEP e le CPO: serve informazione rispettosa e conforme alla deontologia

In merito alla copertura mediatica del processo in corso sulla violenza avvenuta nella villa in Sardegna della famiglia Grillo, l’Osservatorio Step – Ricerca e Informazione, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi, del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e delle Giornaliste, dell’Usigrai e all’associazione Giulia Giornaliste, richiama l’attenzione sul rispetto delle regole deontologiche e sul ruolo cruciale dell’informazione nel contrasto agli stereotipi di genere.

Il progetto STEP è realizzato dall’Università degli Studi della Tuscia in partnership con l’Associazione Differenza Donna Ong.

La responsabile scientifica del progetto è Flaminia Saccà, professoressa ordinaria di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università degli Studi della Tuscia e presidente del corso di laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali.


Di seguito il comunicato integrale diffuso dalle organizzazioni firmatarie:




Il processo sulla violenza nella villa in Sardegna di proprietà della famiglia Grillo presenta, in questi giorni, su molti media, una ricaduta in approcci narrativi che l’Osservatorio Step – Ricerca e Informazione, segnala con preoccupazione, chiedendo alle direttrici e ai direttori, a colleghe e colleghi che seguono le udienze, di attenersi a quanto contenuto nel Codice deontologico dei Giornalisti e delle Giornaliste e nel Manifesto di Venezia.

I virgolettati, il soffermarsi sul presunto cambiamento, anche nell’abbigliamento, di uno degli imputati (Ciro Grillo), il suo pianto alla fine della deposizione alimentano una empatia nei confronti dell’imputato di violenza, che ha voce, mentre la vittima resta in silenzio, è definita “presunta”, forma subdola di colpevolizzazione trascurando le conseguenze di ciò su di lei.

L’Osservatorio Step – Ricerca e Informazione dell’Università La Sapienza, presieduto dalla professoressa Flaminia Saccà, insieme alle Commissioni pari Opportunità di Federazione nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) , Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e delle Giornaliste, Usigrai e all’associazione Giulia Giornaliste, che ne fanno parte, chiede, ancora una volta, di raccontare i fatti con parole e immagini corrette, senza fare proprie le tesi della difesa e, anche, del pubblico ministero, evitando quella asimmetria tra uomini e donne, di cui ancora è intrisa la società e che l’informazione deve contribuire a cambiare.

Le Commissioni pari Opportunità di Fnsi, Consiglio Nazionale dell’Ordine e Usigrai e Giulia Giornaliste si riservano di denunciare ai Consigli di Disciplina degli ordini di competenza territoriale autrici e autori di una informazione che offende le donne.