sabato 5 novembre 2022

Sulla Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne: voce e corpo al femminile


«Che cosa ha portato all’impiccagione delle ancelle e che cosa c’era davvero nella mente di Penelope? La storia, così come viene raccontata nell’Odissea, non è del tutto logica: ci sono troppe incongruenze. Sono sempre stata tormentata dal pensiero di quelle ancelle impiccate e, nel Canto di Penelope, anche Penelope lo è». Credo si possa partire dalla domanda e dalle successive affermazioni di Margaret Atwood racchiuse nell’introduzione al suo libro, Il Canto di Penelope (Ponte alle Grazie, 2018) per parlare della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.

Penelope rappresenta la figura mitica della moglie saggia e devota, permeata da una fedeltà senza eguali. Acuta e intelligente, Penelope si svela attraverso il silenzio. La sua voce è un sogno, arriva da lontano e rifugge verso un luogo ancora più remoto. Paziente e condiscendente al volere altrui, Penelope attende il ritorno di Ulisse.

 

Margaret Atwood riscrive la storia, alternando il racconto personale di Penelope al canto corale delle ancelle. In questo modo, Atwood rielabora i connotati delle protagoniste femminili, portando a galla il loro sostrato emotivo personale e collettivo. Il risultato è un quadro differente da quello che la storia ci ha insegnato.

 

Nella rivisitazione di Atwood c’è la necessità, per sua stessa ammissione, di annullare quell’idea che ha resistito ai secoli estendendosi fino all’età vittoriana (e oltre) secondo la quale: «a lady should never get her name into the paper, except for three times in her life: born, married, died. Other than that, you stayed out of public view and concerned yourself with the healthy home. So that was the fate of Penelope. But, as she says in the first chapter, I don’t approve of this version. There’s more to it, and to me».

 

E proprio dall’esigenza e dalla necessità della voce delle donne nasce il recente racconto di Maria Attanasio nel libro Lo splendore del niente e altre storie (Sellerio, 2020): «Ricostruendo, tra immaginario storico e tracce documentali, il pensare e l’operare di Catarina, Francisca, Annarcangela, Ignazia, ma anche delle protagoniste degli altri racconti, la mia vita si è fusa con la loro in una sorta di transfert, di autobiografia traslata nel tempo dell’esclusione dal linguaggio che ha caratterizzato l’identità di genere; dove però è possibile ritrovare sorprendenti storie di coraggio e di resistenza alla discriminazione e all’ingiustizia». Restando nel perimetro delle voci femminili e dall’importanza di una solidarietà e comunità di visioni, vi è il romanzo Cara Pace di Lisa Ginzburg, la quale, in occasione della presentazione del suo libro nell’ultima edizione del festival Una marina di libri, ha dichiarato che «è incredibile scoprire quanto lucido e preveggente sia stato il suo pensiero (il pensiero della nonna, ndr) sulla solitudine femminile, una solitudine legata alla forza di vivere. Credo che oggi la risposta a questa solitudine sia il ritrovarsi delle scrittrici, come un rito tribale di donne che si mettono in cerchio e si raccontano le loro storie ma senza che le diversità sia un problema, come per esempio era i tempi di mia madre, Anna Rossi-Doria, storica e femminista».

 

Se le battaglie per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell’aborto hanno portato a una maggiore consapevolezza del corpo femminile e dei diritti delle donne è altresì vero che il corpo delle donne, così come la voce, faticano, ieri come oggi, a trovare spazio in molti ambiti della società. Pertanto, ci si chiede, dove e fino a che punto si può parlare di inclusione della voce femminile e del corpo femminile?

 

Il corpo delle donne lo vediamo apparire nei congressi, presenziare nei luoghi di potere (mai in maggioranza), fare brevi e fugaci comparse per poi dileguarsi dietro le quinte. Il corpo femminile si può mostrare purché non vada ad urtare la sensibilità di chi lo circonda: non deve essere seducente pena l’affidabilità della donna in questione, per contro non deve apparire sciatto e trascurato, in tal caso, la donna rischierebbe di essere additata come inadeguata rispetto ai canoni di presentabilità imposti dalla società (in questo la Storia è maestra di lezioni non sempre edificanti: basti pensare alle offese rivolte, tempo fa, alla giornalista Giovanna Botteri).

 

Oltre ai casi di omologazione e strumentalizzazione del corpo femminile, ad essere colpita è spesso (e, talvolta, soprattutto) la voce femminile.

 

La voce veicola il pensiero, trascende il tempo e lo spazio. Togliere la voce alla donna equivale ad eclissarla, a farla sparire. La violenza che colpisce la voce non è meno aggressiva di quella che colpisce il corpo. I danni saranno, allo stesso modo, irreparabili. Assistiamo a femminicidi che iniziano con la sottrazione della voce per arrivare all’annullamento del corpo.

 

«Non siamo usciti dal patriarcato nonostante le conquiste e le emancipazioni. Ancora i ruoli funzionano sotto una apparente parità». Le parole di Dacia Maraini, durante l’intervista in occasione dell’uscita del libro Tre donne (Rizzoli, 2017), risuonano ancora attuali.

 

Parafrasando Michela Murgia (in libreria con Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più edito da Einaudi), il patriarcato attraversa tutte noi, le nostre vite sono permeate da quella cultura silente del maschio dominante, colui che ha il diritto (e detiene il potere) di farci stare zitte, mortificando la nostra persona e impedendoci di realizzarci ed esprimerci pienamente. Il patriarcato si regge anche e soprattutto sulla voce. I gesti sono accompagnati da un linguaggio che, edulcorando o meno gli episodi, giustifica i modi utilizzati affinché vengano rispettate delle gerarchie strutturali sulle quali i patriarchi vorrebbero basare la nostra società.

 

Tempo fa, parlando di gender gap, ho provato a dipingere la storia delle donne nella scienza notando come, dati alla mano, ci sia ancora da lavorare per sanare quel dislivello di genere che ha radici così profonde non solo nella cultura italiana ma in tutte le culture tanto da determinare il problema a livello internazionale. Se da un lato serve una politica in grado di risolvere il gender gap, dall’altro serve, altresì, una società in grado di accogliere quella che potrebbe essere definita una rivoluzione sociale poiché, per la prima volta nella storia, si tratterebbe di porre fine alla genderizzazione di oggetti di uso quotidiano, di nomi, di modi di dire, di atteggiamenti, persino di comportamenti fino ad oggi non inclusivi e, talvolta, discriminanti.

 

Non solo nella Giornata Internazionale Internazionale contro la violenza sulle donne ma ogni giorno, la collettività è chiamata a combattere in nome dell’inclusione e dei diritti contro il pregiudizio di genere (e di qualsiasi altra natura), contro il maschilismo e il patriarcato. Si tratta di una battaglia che si compie partendo dal linguaggio e dalle parole. Le parole ci definiscono, sono mondi che attendono di essere esplorati; attraverso l’evoluzione e l’etimo delle parole scopriamo una storia spesso collettiva. Partiamo dalle parole, interveniamo sul linguaggio laddove questo rifletta la prevaricazione e il dominio. Attraverso le parole si esprimono i rapporti, privati e pubblici: se non interveniamo per cambiare le dinamiche linguistiche non ci sarà speranza di poter cambiare altri meccanismi più subdoli ma non per questo meno necessari.


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