mercoledì 9 marzo 2022

Ballata delle madri. Ricordando Pier Paolo Pasolini

Poesie, saggi, lettere, film, fotografie e incontri: in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 5 marzo del 1922, per tutto il mese verranno pubblicati degli omaggi quotidiani, un modo per raccontare chi è stato e cosa ha realmente rappresentato Pasolini per la sua generazione e per quelle successive.


Pasolini e la madre. Roma, 1962


Ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.

Se ora vi vedessero al lavoro

in un mondo a loro sconosciuto,

presi in un giro mai compiuto

d'esperienze così diverse dalle loro,

che sguardo avrebbero negli occhi?

Se fossero lì, mentre voi scrivete

il vostro pezzo, conformisti e barocchi,

o lo passate, a redattori rotti

a ogni compromesso, capirebbero chi siete?


Madri vili, con nel viso il timore

antico, quello che come un male

deforma i lineamenti in un biancore

che li annebbia, li allontana dal cuore,

li chiude nel vecchio rifiuto morale.

Madri vili, poverine, preoccupate

che i figli conoscano la viltà

per chiedere un posto, per essere pratici,

per non offendere anime privilegiate,

per difendersi da ogni pietà.


Madri mediocri, che hanno imparato

con umiltà di bambine, di noi,

un unico, nudo significato,

con anime in cui il mondo è dannato

a non dare né dolore né gioia.

Madri mediocri, che non hanno avuto

per voi mai una parola d'amore,

se non d'un amore sordidamente muto

di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,

impotenti ai reali richiami del cuore.


Madri servili, abituate da secoli

a chinare senza amore la testa,

a trasmettere al loro feto

l'antico, vergognoso segreto

d'accontentarsi dei resti della festa.

Madri servili, che vi hanno insegnato

come il servo può essere felice

odiando chi è, come lui, legato,

come può essere, tradendo, beato,

e sicuro, facendo ciò che non dice.


Madri feroci, intente a difendere

quel poco che, borghesi, possiedono,

la normalità e lo stipendio,

quasi con rabbia di chi si vendichi

o sia stretto da un assurdo assedio.

Madri feroci, che vi hanno detto:

Sopravvivete! Pensate a voi!

Non provate mai pietà o rispetto

per nessuno, covate nel petto

la vostra integrità di avvoltoi!


Ecco, vili, mediocri, servi,

feroci, le vostre povere madri!

Che non hanno vergogna a sapervi

- nel vostro odio - addirittura superbi,

se non è questa che una valle di lacrime.

E' così che vi appartiene questo mondo:

fatti fratelli nelle opposte passioni,

o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo

a essere diversi: a rispondere

del selvaggio dolore di esser uomini.

lunedì 7 marzo 2022

Annie Ernaux: "È un dovere prendere posizioni". Sul femminismo e sulla scrittura come impegno politico e sociale

In occasione della Giornata internazionale della Donna, pubblico (in traduzione italiana) un breve estratto dell'intervista rilasciata da Annie Ernaux al quotidiano Libération nella quale racconta la scrittura come impegno politico. «Prendere una posizione è un dovere».




Rilegge i suoi libri?


Mai, tranne quando richiesto per un evento particolare. Ne ho alcuni che sono stati accolti meno bene. La mia reazione è sempre la stessa: «Non potevo riscriverlo, ma francamente è quello che volevo fare». Non ho pentimento nei confronti dei miei libri. Anche per il secondo, che è il mio unico romanzo (Ce qu’ils disent ou rien, Gallimard 1977) e che trovo scritto troppo in fretta. Eppure, a quel tempo, non potevo scrivere altro. Sono sempre stata affascinata da Marguerite Yourcenar che ritornava più e più volte sui testi: migliorare è un termine che in letteratura non conosco. Puoi migliorare un piatto aggiungendo un ingrediente. Un libro, no: è un'entità. Ma non è venuto per questo. E' venuto per parlare di Jean-Luc Mélenchon...


Poteva essere un buon pretesto. Ma andiamo. Perché ha deciso di unirsi al Parlement de l’Union Populaire per la compagna presidenziale di Jean-Luc Mélenchon che riunisce personalità che provengono del mondo delle associazioni, dei sindacati, così come intellettuali e artisti?


L'azione politica fa parte di me, anche quando non la rendo pubblica. Nel 2012 ho scritto un lungo editoriale su Le Monde a sostegno di François Hollande per il secondo round. Ma è diverso. Mélenchon, saranno tre volte che lo voto già al primo turno. Quindi non ho fatto un grande salto. Nel suo programma, che ho letto con attenzione, ci sono proposte che mi sembrano essenziali. L'idea del collettivo, il ripristino dell'imposta patrimoniale (ISF), la condivisione della ricchezza, l'organizzazione del lavoro. E c'è più di ogni altra cosa questa popolare misura di cambiare la repubblica (...) Voto dal 1962. Era la prima volta, avevo 21 anni. Era un referendum. De Gaulle ha posto la domanda: "Vuoi che il presidente sia eletto a suffragio universale?" E io ho votato no. Quando a Mélenchon (...) nel complesso vedo un uomo colto, con una visione della storia. Ma non sono obiettiva: sono solo circondato da persone che lo votano.

 

Accettate di essere definita con la formula di "scrittrice impegnata"?


Accetto questo termine. Ho vissuto la mia giovinezza tra scrittori impegnati. Sartre, Beauvoir, Camus, che non era così disimpegnato. Conoscevo anche il maggio del '68. Prendo atto e deploro a poco a poco il disimpegno degli scrittori. Considero un dovere prendere una posizione. Anche se posso sbagliarmi, voglio testimoniare. Il mio sguardo si volge verso il mondo sociale e verso le donne, due direzioni, due dolori, che corrispondono alla mia biografia: ho sperimentato il disprezzo sociale e da ragazza mi sono scontrata con il dominio maschile. Oggi è molto difficile guadagnarsi da vivere scrivendo libri. Gli scrittori, se si posizionano, hanno paura di perdere lettori, di vendere di meno. Lo si può comprendere, ma, a mio parere, è un errore.

 

Hai detto di aver sperimentato il disprezzo: quando è stata l'ultima volta?


Il disprezzo è diminuito con il progredire della mia vita. Nel campo educativo, ho trovato rapidamente il mio posto come insegnante. Ma in campo letterario, lì, francamente, sono stato vittima di disprezzo. È iniziato nei primi anni '80 dopo aver vinto il Premio Renaudot per La Place. Sono stata oggetto di molte critiche, di violenta ironia. Ne ho pienamente risentito in seguito all'uscita, nel 1992, di Passion simple  Non c'era nulla in quel libro che potesse offendere socialmente la borghesia, ma quest'ultima si vendicò del successo de La Place. Questo libro mi ha portato molti nemici. Ero una donna, che non proveniva dal loro ceto sociale. È stato qualcosa di estremamente violento. La prospettiva delle persone è cambiata dopo il libro Les Années, nel 2008. Oggi certi attacchi non sarebbero più possibili. Nel le Nouvel Observateur, tuttavia, in passato ero stata chiamata “Madame Ovarie” per prendere due piccioni con una fava: “Madame Bovary” e “ovaie”. È stato difficile.

 

Il femminismo si è ritirato?


Non lo so, almeno non è avanzato. C'è una caratteristica in Macron: il suo modo di essere riluttante per tutto ciò che riguarda le donne. La PMA è stata solo l'anno scorso, la 14a settimana del limite di aborto è molto recente. Sembra prendere queste misure suo malgrado.


A proposito, potete determinare il momento in cui siete diventata femminista? 


Non c'è stato un momento chiave. In effetti, mi sembra di essere sempre stata una femminista, sono sempre stata me stessa senza saperlo. C'era la lettura de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir: ero completamente d'accordo con tutte le sue affermazioni sulla situazione delle donne. Avevo 18 anni e mezzo molte cose mi si sono chiarite in quel momento, perché avevo già una vita segnata da esperienze crudeli con i ragazzi. Sono giunta a una conclusione nel tempo: le scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita sono state durante i periodi in cui, in qualche modo, ho smesso di essere una femminista.



Per leggere l'intervista completa: Annie Ernaux: «C’est un devoir de prendre position» di Rachid Laïreche e Ramsès Kefi -  6 marzo 2022


domenica 6 marzo 2022

Cento anni di Pasolini: l'omaggio di Mattia Morretta da Tracce vive

Poesie, saggi, lettere, film, fotografie e incontri: in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 5 marzo del 1922, per tutto il mese verranno pubblicati degli omaggi quotidiani, un modo per raccontare chi è stato e cosa ha realmente rappresentato Pasolini per la sua generazione e per quelle successive.





Pubblichiamo un estratto dal saggio Tracce vive di Mattia Morretta. Il libro è stato pubblicato dal Gruppo Editoriale Viator nel 2016. Si ringrazia editore e autore.


Riposare sotto gli allori


Una foglia di alloro. Proviene dalla pianta che fa ombra, esaltandola, alla sepoltura di Pier Paolo Pasolini, nel piccolo cimitero di Casarsa della Delizia. L’ho raccolta da terra per recare con me un segno del passato o per propiziarmi il futuro? C’è sempre un po’ di megalomania nell’ossequio pur sentito a uomini grandi, in questo caso poi l’identificazione è tutt’altro che inconscia nel registro paterno.  


Percorro il breve viale alberato, i cipressi sono di un verde intenso e scuro, sotto un sole ancora estivo, la giornata è calda e luminosa, sorridente e leggera, entrare in un camposanto appare un controsenso. Sono le dieci del mattino del 28 settembre. Con un vissuto di imbarazzo, a metà tra il pudore e il timore, varco il cancelletto di ferro sul lato destro, quello di sinistra è chiuso, così come il cancello principale al centro sulla cui sommità campeggia la scritta In Pace Christi Requiescant.


Mi guardo intorno, solo tre persone nel corridoio mediano, due intente a un dialogo fitto su una recente scomparsa (in seguito a grave malattia, si intuisce) e un’altra accanto a una fila di colombari che delimita il terreno. Non c’è custode, me lo conferma la signora cui lo domando, si illumina in volto quando le chiedo se sappia dove sia la tomba di Pasolini. Me la indica col braccio teso: “Vede l’albero di alloro? È quella, lui e la sua mamma sono vicini”.


È la quarta a sinistra appena entrati, un lembo di terra recintato da una siepe bassa, l’alloro splendente con la folta e compatta chioma, due lastre rettangolari con i nomi e tra parentesi le date di nascita e di morte, in bei caratteri classici. Un lumino acceso, due vasetti di piante (una artificiale) e i resti di una terza accostati alla siepe, un pennello da pittore sulla lapide di Pier Paolo. Sembra sia stato David Maria Turoldo a convincere la madre a farlo seppellire nella terra friulana, in un’altra zona giace pure il fratello minore.

 
Nel silenzio assolato recito il requiem aeternam, cerco di vedere dentro o oltre, assorbendo tutti i dettagli e soprattutto l’essenza. Decido di andare a comprare dei fiori in paese, non c’è neppure il fioraio all’ingresso. Acquisto dei crisantemi gialli in vaso e con una piccola molletta di legno allego un bigliettino: “L’hai detto tu: la poesia non si consuma. Un pensiero in forma di rosa”.


Torno indietro, non c’è più nessuno, sono solo, quasi a tu per tu con il mondo dell’aldilà, e mi viene in mente quella frase di Teresa d’Avila sui “veri vivi”, i defunti coi quali ci sentiamo “in compagnia”. Un accenno di pianto mescola tristezza cosmica e commozione narcisistica per l’onore che mi tocca, sono nessuno davanti all’urna di un Poeta e tengo accesa la fiaccola, potrebbe bastare per il resto dei giorni.
Se Pasolini è nelle sue opere, chi c’è in quel sepolcro che custodisce i resti mortali epurati dallo scempio? Rivolgendo la mente all’uomo Pier Paolo, bolognese di nascita e romano di adozione, il primo atto di dolore riguarda la fine sul terreno sabbioso ad Ostia, ove un monumento lo ricorda e consegna all’indifferenza. Sapeva quella sera che non sarebbe tornato a casa e non avrebbe rivisto il giorno? Cosa ha pensato in quegli istanti in cui si è sentito perduto?


Alcuni frammenti esistenziali risultano inquietanti, pur tenendo conto dell’effetto distorsivo della interpretazione postuma. In un articolo sul settimanale comunista Vie Nuove del 12 luglio 1962 intitolato “Come un incubo dell’infanzia” (inizia con “Voi lettori … siete i miei amici più cari”), egli rievocava due incubi di quando era fanciullo: essere sepolto vivo e essere condannato innocente. Nel primo è facile ravvisare la claustrofobia del grembo materno (analogo al fenomeno della fame d’aria negli attacchi di panico), il senso di soffocamento della dipendenza dal cordone ombelicale psichico; nel secondo si prefigura la contraddizione insanabile che segna la sua maturità, cioè sentirsi in colpa e al contempo innocente in quanto inetto nel nuocere intenzionalmente e fisicamente (in ultima analisi dare la morte).  


In una lettera a Franco Farolfi del 1941 diciannovenne scriveva: “Spezzare i vincoli che legano al passato? È quel io tento di fare. Io voglio ammazzare un adolescente ipersensibile e malato che tenta di inquinare anche la mia vita di uomo, ed è già quasi moribondo, ma io sarò crudele verso di lui, anche se in fondo lo amo, perché è stato la mia vita fino alle soglie dell’oggi”. 


Rivolgendosi da Roma all’amica Silvana Ottieri nel 1950  è lui stesso a tracciare un parallelo tra la sofferenza privata e il modo morboso di vivere la sessualità: “Ero affranto, le mie condizioni familiari erano disastrose, mio padre infuriava ed era malvagio, fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odia un mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca di una gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l’unico scampo. Ne sono stato punito senza pietà”.

 
Un tono che rivela, oltre alla solitudine che l’accompagnerà per l’intera esistenza, nonostante le solide appartenenze e le compagnie intellettuali, la fanciullezza perpetua sottesa all’atteggiamento di esposizione, una vocazione sacrificale che lo porta ad indossare simbolicamente una sorta di toga candida nell’ambito interpersonale e sociale. Ogni volta che scrive, agli amici, ai militanti, ai lettori, non si può fare a meno di notarne l’ingenuità, la fragilità di un ragazzino poco accorto e inesperto che si attende comprensione profonda e interessamento. O forse la perenne lettera del poeta al mondo, che mai può corrispondere, citando a proposito Emily Dickinson. 
Ha infatti gridato in Una disperata vitalità: 


La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi.




Mattia Morretta è psichiatra e sessuologo, ha pubblicato numerosi saggi di approfondimento psicologico e di critica culturale, il più recente, Tra di noi l’oceano. Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator, Milano), ha ricevuto nell’ottobre 2021 il premio speciale della giuria del Premio Letterario Internazionale Antica Pyrgos. Un archivio di articoli e scritti è consultabile sul sito https://www.mattiamorretta.it


sabato 5 marzo 2022

E' sabato. La lettera di Daniela Tuscano a Pier Paolo Pasolini

Poesie, saggi, lettere, film, fotografie e incontri: in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 5 marzo del 1922, per tutto il mese verranno pubblicati degli omaggi quotidiani, un modo per raccontare chi è stato e cosa ha realmente rappresentato Pasolini per la sua generazione e per quelle successive. 



Dopo la  poesia di Antonella Rizzo, prosegue l'omaggio a Pasolini con la lettera scritta da Daniela Tuscano:


È SABATO

È sabato, non si va a scuola.

È giorno di vacanza per i milanesi.

È sabato, e in questa città della Riviera le vetrine dei libri mi rimandano il tuo volto.

È sabato, e tu compiresti cent'anni.

Non potevi immaginare che saresti diventato istituzionale.

Che le tue frasi, non sempre tue, venissero saccheggiate, trafugate, spesso distorte, ancor più tradite, da chi non ti conosce, né ti ha vissuto.

Non l'avresti voluto.

Popolare sì; nel cuore del popolo - non della gente - staresti benissimo.

Tu che dicevi - mentendo, ma ti si perdona - d'esser nato per una vita tranquilla, per piaceri semplici.

Ti si perdona perché mentivi senza vezzo.

Istituzionale. Quasi. Forse.

Ma non esistono due Pasolini: sei unico, nella sacertà come nel fango. Indissolubile.

Raccontano che, in certi momenti, eri come posseduto da un demone; tu stesso lo ammettevi. Ed era un diavolo vero, un'estasi rovesciata. Santità eretica. Di quelle antiche, materiche, delle pale d'altare.

Cent'anni di un uomo senza tempo.

Cent'anni d'un uomo antico. Rinascimentale, anche se forse avresti preferito il fulgore del Medioevo.

Il tuo Rinascimento era già manierista, un Giardino dei Mostri senza Controriforma alcuna. Mai pura razionalità, ma inquietudine pronta a esplodere.

Rinascimentale perché umano, integralmente. Tridimensionale e indivisibile.

Cent'anni e molti di più. La tua nera fine non potrà mai entrare nelle aule polverose. Non sei stato l'unico. Ma di tutti il più scoperto e sincero.

E questo no, non si può istituzionalizzare, non addomesticare. Resti lì, con un passo fuori, nel buio, nel tuo sguardo senza occhi, da reduce. Avevi visto l'inferno, ma l'Amor che tutto move no, quello l'avevi solo sperato. 

E oggi, davanti all'abisso, quanto ci manca quella cupezza amorosa, esigente, cruda.


                                                                                                                                

Sanremo, 5 marzo 2022



Daniela Tuscano, docente di materie letterarie all'IIS De Nicola di Sesto S. Giovanni (Milano), ha all'attivo diverse pubblicazioni. Sempre a Sesto S. G. ha allestito il convegno "Pasolini ai giovani" (2015). Collabora inoltre con pasolini.net ed è editor del gruppo fb "Pier Paolo Pasolini, eretico e corsaro".


Pier Paolo Pasolini, a 100 anni dalla nascita l'omaggio di Antonella Rizzo

Poesie, saggi, lettere, film, fotografie e incontri: in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta il 5 marzo del 1922, per tutto il mese verranno pubblicati degli omaggi quotidiani, un modo per raccontare chi è stato e cosa ha realmente rappresentato per la sua generazione e per quelle successive. 




Si inizia con la poesia di Antonella Rizzo (che ringrazio per la gentile concessione), Poesia per Pasolini, pubblicata nella raccolta poetica Plethora edita da Nuove Edizioni Aldine (2016).


Ti ricordo come un iconico santo

in un soprabito stretto, dai colli generosi

strizzato in una vita da silfide maschio

troppo povero per i ricchi

troppo ricco per i miseri.

Difficile immaginarti prono

immerso in una pozza di sangue.

Stavi difendendo la mia natura

notturna e candida

implume e maliarda

che si sveglia con i segni delle corde.

Eppure, ho sentito stupirsi

rinnegando il canto del gallo

parlando di amore e madrigali

le vipere e i guardoni del Palazzo.

Hai seminato le crepe e i cortili spogli

erano fertili, sapevano di talco

e di giovani vecchi armati fino ai denti.

Se non è questo il sacrificio…

farsi carne e sentirne la crudezza

quando l’anima è fuori da ogni tempo

e già divina con le sue parole.




Antonella Rizzo è poeta, performer, giornalista, insegnante, ha al suo attivo le raccolte di poesia Il sonno di Salomè, Edizioni Tracce; Confessioni di una giovane eretica, Lepisma editore; Cleopatra. Divina Donna d’Inferno, Fusibilia libri; Iratae, piéce poetico-teatrale con Maria Carla Trapani, Fusibilia libri;  Plethora, Nuove Edizioni Aldine; A dimora le rose, Edizioni Croce; A quelli che non sanno che esiste il vortice, Lavinia Dickinson Editore. È curatrice per Fusibilia Libri dei volumi Haiku. Come fiori di ciliegio, Il morso verde. Racconti sull’invidia, Caro maschio che mi uccidi. Ha ottenuti prestigiosi riconoscimenti nei più importanti Premi letterari italiani. È presente in molte Antologie di Poesia contemporanea e partecipa come poeta e performer ad eventi culturali di carattere nazionale e internazionale, cortometraggi, pièces teatrali, in collaborazione con artisti visivi e musicisti. Nel 2016 è stata invitata come rappresentante della Poesia italiana al XXVI Festival della Letteratura polacca in Galizia. Si sono interessati alla sua scrittura  poeti e intellettuali contemporanei come Beppe Costa, Anna Maria Curci, Claudio Giovanardi, Marco Onofrio, Ilaria Palomba, Nazario Pardini, Rocco Paternostro, Plinio Perilli, Antonio Veneziani e molti altri. Scrive recensioni letterarie su CulturaMente e Art a part of culture. I suoi libri sono stati tradotti in arabo, polacco, albanese.

giovedì 3 marzo 2022

Ritratto di Marguerite Duras: la scrittura e il cinema tra luoghi perduti e ritrovati

                                                                                  

Toi qui ne veux rien dire /

Toi qui me parles d'elle /

Et toi qui me dis tout /

Ô, toi.

India Song, Marguerite Duras

 


Avevo da poco compiuto vent’anni quando scoprii la prosa di Marguerite Duras, la musicalità del suo fraseggio, la scrittura ellittica e in continuo divenire, la tensione tra la geometria narrativa e la smisurata dimensione emotiva. Quelle pagine incendiarie di passione e vergogna mi travolsero e non mi abbandonarono più.


C’è un’immagine che porto sempre con me: le mie mani mentre stringo L’amante. La copertina rigida, quella dell’edizione Feltrinelli per i cinquant’anni della casa editrice. Ricordo gli occhi di Duras trafiggermi.


Autunno. Il parco Ducale di Parma era un manto ambrato, le foglie secche scoppiettavano sotto alle suole delle scarpe e il cielo era terso come non lo avevo mai visto prima. Era piacevole attardarsi tra i viali alberati, osservare le ombre allungarsi mentre il giorno cedeva il passo alla sera. L’imbrunire intensificava i profumi della terra e un brivido correva lungo la schiena mentre il passo accelerava per raggiungere casa.



Quella sera stessa lessi le prime pagine del romanzo, scoprendomi, ben presto, totalmente rapita dalla scrittura durassiana. Il suo modo di affondare la lama della scrittura nel dolore del ricordo, di recuperare l’irrecuperabile, di dire anche ciò che risulta difficile raccontare attraverso una lingua che si trasforma, trascendendo la sua stessa essenza: tutto questo mi spinse, nel tempo e negli anni, a scavare nei suoi interminabili dolori, andando al di là della parola scritta, per tentare di afferrare il suo io, quello che affiora tra le intermittenze mnemoniche, nei momenti di grande estasi creativa durante i quali Marguerite sapeva essere se stessa, spogliandosi di tutto, attraverso la scrittura.


Non c’è bisogno di dire che la lettura del romanzo L’amante fu talmente pervasiva che lasciai perdere tutti gli altri libri per tuffarmi nell’universo durassiano. Il mio fu un percorso a ritroso: partendo dal dolore dell’ultima Duras cercai di rintracciare la radice del suo tormento. Un viaggio che prosegue tuttora tra accelerazioni, arresti, slanci e brusche frenate.


Attraverso L’amante iniziai, con tenacia e ostinazione, il cammino sulle tracce della scrittura durassiana non senza difficoltà.


Per capire l’universo attorno al quale ruota la recherche durassiana sono partita dagli anni dei ricoveri ospedalieri e dalla disintossicazione da alcolismo.


È in quei momenti che l’anima chiede salvezza per non finire nell’oblio eterno dal quale non c’è ritorno.

 

Nel 1987 Laure Adler intrattiene un lungo incontro con Marguerite Duras durante il quale la scrittrice racconta dell'abuso di alcol e delle successive disintossicazioni: «c'est lié à Dieu... ça pallie un manque essentiel, qui n'est pas un manque de compagnie du tout, qui est un manque d'ordre essentie». L’uso di alcol come dipendenza è un gesto legato a Dio, un gesto da rimandare, traducendo le parole di Marguerite Duras, alla compensazione di una mancanza, che non è mancanza di relazioni, quanto una mancanza interiore e più profonda.

 

Riavvolgo il nastro dei ricordi.

 

Le luci soffuse dei lampioni illuminavano timidamente Caen. Era una sera di inizio primavera, dai balconi il profumo degli anemoni inondava le strade e le guglie dell’abbazia si elevavano in tutta la loro solitaria eleganza.


Yann Andréa, la magrezza diafana di un ventitreenne, il fuoco nel suo sguardo, la fronte imperlata di sudore. Arde dal desiderio di incontrare Marguerite Duras dal vivo, sentire la melodia della sua voce, le parole che avrebbero vibrato nell’aria e tutto attorno a lui si sarebbe riempito del suon di lei.

Quella sera, al cinema Lux, avrebbero proiettato India Song. Dopo la proiezione ci sarebbe stato un incontro con Duras.


Qualche tempo prima, Yann Andréa aveva letto per caso I cavallini di Tarquinia, romanzo pubblicato nel 1953 in Italia da Einaudi in seguito alle vacanze italiane che Duras trascorse come ospite nella residenza estiva di Elio Vittorini e della moglie. Folgorato dalla scrittura durassiana, attraversato dalle sue parole, un turbinio di emozioni aveva messo in moto le zone più profonde e recondite di Yann. Non poteva perdere l’occasione di conoscere colei che faceva tremare ogni parte del suo corpo.


Lo vedo mentre si avvicinava al cinema Lux, mentre la cerca con gli occhi sulle note della voce di Jeanne Moreau. Vedo il suo sguardo estasiato mentre ascolta le parole di colei che già ama di un amore senza amore. È ammaliato, Yann Andréa, non come gli altri ma più degli altri.


Lo guardo mentre si avvicina a Marguerite. Tra le mani stringe il libro Détruire, dit-elle per una dedica. Con la voce tremante le chiede se può scriverle delle lettere, se può dargli un indirizzo al quale spedirle. Inaspettatamente lei accetta e gli fornisce lo stesso indirizzo che sarà il luogo nel quale si rifugerà, molti anni dopo, alla morte di Marguerite Duras.


Lui le scriverà per cinque anni consecutivi, senza risposta.


Non poteva sapere che Marguerite Duras aveva ricominciato a bere proprio l’anno del loro incontro. Stretta nella morsa della sua solitudine, Duras riviveva i dolori della sua vita. Ritornava in modo ossessivo sulla sua storia. Nell’atto stesso di immergere la lenza nella memoria, Duras lasciò che l’acqua portasse a galla quello che era rimasto sul fondo dei ricordi per tanto, troppo, tempo. 


Per cinque lunghi anni, le lettere di Yann Andréa portarono una luce nel buio della stanza di Marguerite Duras.  Dalle sue parole traspariva un trasporto empatico senza eguali. Nessuno, in quel periodo, era riuscito a entrare così in profondità nell’universo di Duras. Nessuno, eccetto quel giovane studente di filosofia. Lo stile linguistico, l’intensità del linguaggio… tutto nelle lettere di Yann era permeato dall’universo durassiano.


Le lettere di Yann erano boccate d’ossigeno per Marguerite, un’ancora di salvezza dal dolore che non le lasciava tregua. Il cinema e il teatro non allentavano il dolore. La scrittura e la stesura di opere inasprivano il suo turbamento.


Nel 1980, dopo due mesi di ricovero ospedaliero, Duras inviò a Yann Andréa l’opera L'homme assis dans le couloir e questa volta fu lei ad essere ricambiata con il silenzio. Non si arrese, continuò ad inviare scritti al giovane Yann. Iniziava in questo modo una delle più appassionate corrispondenze della storia della letteratura francese.


Alla fine di agosto del 1980, Duras inviterà Yann Andréa a bere un bicchiere di vino a casa sua. Fu in quel momento che Yann lasciò tutto e si trasferì da Marguerite a Trouville, un’ora di strada da Caen, anni luce distante dalla vita da studente che aveva condotto fino al giorno prima.

 

Li vedo mentre cantano La vie en rose, mentre si lasciano alle spalle Trouville a bordo della Peugeot 104: si dirigono verso Honfleur. Duras vuole mostrare al giovane filosofo le bellezze cromatiche del porto di Le Havre. Quando le luci e le ombre si riflettono nel mare, i due si rimettono in auto, lei canta, lui la segue, non può far altro che seguirla. Aspettava questo momento, aspettava una donna come lei, qualcuna che lo prendesse per mano, che lo guidasse, qualcuna a cui dire sempre di sì. Perché Yann dice sempre di sì, non contraddice quella che ai suoi occhi appare come una divinità, sempre sul punto di sfuggirle, sempre sul punto di non comprenderla fino in fondo.

 

«Je ne pouvais pas dire son nom. Sauf l'écrire. Je n'ai jamais pu la tutoyer. Parfois elle aurait aimé. Que je la tutoie, que je l'appelle par son prénom. Ça ne sortait pas de ma bouche, je ne pouvais pas. Je me débrouillais pour ne pas avoir à prononcer le mot. Et pour elle c'était une souffrance, je le savais, je le voyais, et cependant je ne pouvais pas passer outre». L’impossibilità di chiamare le cose con il loro nome, di chiamare lei, di chiamare quell'amore. Yann scriverà queste parole nel memoriale della loro storia, Cet amour-là. Tra le pagine di questo libro emerge il dolore durassiano, il suo costante tormento di non riuscire ad entrare in contatto con l’altro. La scrittura di Yann Andréa si sovrappone a quella di Duras. In lui si legge la poetica di Duras. Stare al suo fianco, anche nella stesura dei romanzi e delle sceneggiature significherà per il giovane studente un’assimilazione totale, nel tempo, del corpo e della mente di Duras, della sua scrittura carnale, appassionata, avvolgente.

 

Di nuovo li vedo a bordo della Peugeot 104. Sono stati fuori tutta la notte. Albeggia. Yann e Marguerite si rimettono in auto, tornano all’appartamento di lei. «Non andare in un hotel, dopotutto sono pieni in questo periodo dell’anno. La stanza di mio figlio è vuota, puoi dormire lì».  Inizia in questo modo la loro storia che durerà fino alla morte di Duras, il 3 marzo del 1996. Ma questo Yann non può ancora immaginarlo. In quel momento Yann accetta di dormire nella stanza del figlio, di diventare il compagno, il confidente, l’ultimo amante di Duras, uno degli uomini più amati e più desiderati da Duras ma anche uno dei più sfuggenti e tormentati. 


Yann Andréa non ha solo 38 anni in meno di Duras. Yann Andréa desidera gli uomini. L’impossibilità della passione con Yann dilania e scalfisce l’animo di Marguerite creando delle profonde crepe d’inquietudine e di dolore nei suoi scritti e nella sua, già dilaniata, vita.


È nello spazio di queste ferite che lasciano il cuore troppo aperto che si inserirà la stesura di Agatha.



Marguerite Duras ho dedicato uno dei tre capitoli del mio ultimo libro, L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore .