lunedì 31 gennaio 2022

Una finestra su un tempo gettato alla rinfusa: Guardaroba di Jane Sautière

 «Mi succede spesso di sognare vecchi vestiti, di andare e venire in quelle storie un po’ incoerenti con abiti che credevo dimenticati. Li sento parte di me come la mia pelle, i miei capelli, le mie unghie. Poi finiscono nell’oblio e nella spazzatura, smessi o rovinati, così come si gettano via le unghie tagliate o il gomitolo di capelli strappati dalla spazzola. Apro questo guardaroba su un tempo gettato alla rinfusa, ieri o oggi. Stranamente non c’è un futuro, non penso al prossimo vestito, a quello che deve arrivare, che verrà a cercarmi. Nessun bisogno, né desiderio. (...) Aprire un libro come si apre un armadio. Meglio: aprire un armadio come si apre un libro. Scrivere un vestito perduto, dimenticato, farlo uscire da quel guardaroba così oscuro, guardare ciò che è stato nel suo ordinario e nel suo straordinario».



Mai avrei pensato di imbattermi in un'apologia del vestiario, un cantico delle creature abbracciate ai loro abiti. Perché Guardaroba è proprio questo: una leggiadra esposizione aneddotica sul significato dell'indumento in relazione al corpo femminile che lo indossa, il ricordo nostalgico del tempo perduto (o di quello ritrovato?) declinato nel gesto di sottrarre da un baule o da un vecchio armadio un tessuto carico di storie e tradizioni. Eppure, avrei dovuto probabilmente aspettarmelo perché l'autrice, Jane Sautière, ha già dato prova della sua penna, del suo modo di invertire la prospettiva dando alla narrazione una traiettoria differente dal solito e liberando gli oggetti narrati dalla loro, spesso uniformante, indistinzione.


«La nudità non è la verità. Ne è insieme l’inquietudine, l’attesa, la cura e l’appello. Forse anche lo svestimento: tolta la veste, occorre comprendere che tutto resta da scoprire». Lo scriveva Jean Luc Nancy oltre trent'anni fa. E ancora prima di lui, Oscar Wilde cercava di ricondurre quel tutto a un concetto di libertà fuori dal tempo e dallo spazio, in perenne tensione con l'essenza stessa dell'esistenza.


Habitus, habēre. Ricorda Sautière. Indossare qualcosa sul proprio un corpo, vestirlo per proteggerlo, per attribuirgli un significato, per imbrigliarlo servendosi degli stereotipi femminili e maschili oppure sperimentando nuovi modi di vestire.  


Assisto all'apertura di «questo guardaroba su un tempo gettato alla rinfusa, ieri o oggi». E così l'autrice mi accompagna tra i negozietti di Barbès: tra questi un loculo minuscolo gestito da un'africana che vende tipiche tuniche bou bou. Per le strade di Lione, Sautière scopre una boutique dove le due ragazze sono anche sarte imprenditrici e distributrici di capi da loro disegnati. Pezzi unici. Seguo Sautière, nei suoi ricordi di gioventù a Phnom Penn dove, durante un bagno in acqua, il sampot si incolla alla pelle. È adolescente e si vergognerà di aver mostrato, lungo la strada per casa, le sue curve ai pescatori di passaggio. In Cambogia si faceva fare le scarpe da un calzolaio ma poi l'afa strozzava le sue passeggiate obbligandola a camminare scalza, il piede nudo a contatto con la terra arsa dalla calura. Tornata a Parigi avrebbe faticato a indossare le scarpe. E non solo quelle. Non riusciva a coprire il corpo con cappotti adeguati, sciarpe o cappelli. C'è voluto del tempo prima che gli abiti l'aiutassero a «tornare al mondo». Ed ecco che scopre e vive Parigi.


Maglioni di lana pesante, cardigan infeltriti, golfini e dolcevita, un abito di pelle color marron glacé, un vestito in crêpe de chine rosso, aderente a maniche lunghe. E poi ancora una blusa in crêpe de soie color écru, una gonna-pantalone, dei fuseaux aderenti, una gonna di mussola, una tunica di lamé. Ogni capo racconta qualcosa del suo passato, della donna che lo ha indossato e che ora non c'è più o che non può più portare quell'abito.


Jane Sautière traccia la storia delle sue epoche attraverso le mode che ha vissuto: da Teheran, città dove è nata, rimembrando la madre e le donne che la circondavano e con loro il profumo di acqua di rose, i capelli cotonati, le sopracciglia rasate e ridisegnate, la tunica indiana, le spalline imbottite e l'abito da principessa, si passa alla Cambogia, il fiume Mekong, la terra brulla, la nudità dei corpi, i tessuti leggeri, per giungere a Parigi, cosmopolita metropoli nella quale si è abituata nuovamente a indossare abiti, a sceglierli, a vestire il corpo.


Indossare un vestito, diventare soggetti liberi di dare al proprio corpo una forma e quindi un significato o, come affermava Foucault, di ricercare un'etica dell'esistenza che sia alla base stessa di quella libertà ambita.   


venerdì 28 gennaio 2022

L'erotismo, la scrittura, il linguaggio. Ritratto di Sidonie-Gabrielle Colette

Il 28 gennaio ricorre il compleanno di Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28 gennaio 1873 - Parigi, 3 agosto 1954). Ho provato a delineare un quadro di una delle Donne che ho amato per la forza della parola, il cui ricordo è vivo dentro di me.


Nel voler tracciare un ritratto di Colette, prevale lo sguardo sulla parola tuttora inedita e moderna, la parola tumultuosa che passa dai frammenti del corpo per diventare lingua a servizio di quelli che «alla leggera chiamiamo i piaceri fisici e l'infinito del mondo». Affacciandomi ai prodigi del linguaggio, sterminato per l'acume nel trattare di questi piaceri e di questa infinitudine, mi travolge il fulgore della parola scritta di Colette, la sua vocazione a trasporre il piacere femminile, a liberare la sessualità della donna costruendo un'architettura narrativa basata sul dialogo, continuo, tra ciò che è puro e ciò che è impuro.



Uno dei tanti aspetti che mi affascinano di Colette, è proprio questo suo naufragare nella parola, immersione ed emersione, bagliori sottratti all'erotismo immaginifico e restituiti sotto forma di parola che diventa lingua e a sua volta linguaggio. La costruzione di un alfabeto, quello che Sido ha cercato di trasmetterle, «lo schizzo di un luogo intravisto all'alba sotto raggi che non avrebbero mai raggiunto lo zenit». Trattasi di evocazione della scrittura che diventerà poi metamorfosi del linguaggio colto nel flusso interiore della narrazione delle epoche della sua vita, questo rimestare nel passato per poi dipingere sfumature del presente, in un corpo a corpo con il tempo che si riversa e si imprime sulla carta.


Colette trae una forza inaudita dalla sua penna. Dai diversi punti di osservazione, luoghi privilegiati dai quali osservare la vita nel suo scorrere e incedere, Colette afferra quella che potrebbe essere definita come l'essenza della sua scrittura. «Scrivere! saper scrivere! Lo scarabocchio inconscio, i giochi della penna che gira in tondo intorno ad una macchia d'inchiostro, che mordicchia la parola imperfetta, la artiglia, la setola di dardi, la adorna di antenne, di gambe, fino a perdere la sua figura leggibile di parola, trasformata in un insetto fantastico».


Questo saper scrivere verrà lodato da Simone de Beauvoir che racconta del suo incontro con Colette in una lettera del 1948 indirizzata a Nelson Algren affermando, con la sicurezza che, da sempre, la contraddistingue: «Colette è in Francia il solo grande scrittore donna, parlo di un grande scrittore vero». E pensare che una ventina d'anni prima, quando il critico letterario André Billy le fece notare le sue doti in occasione dell'uscita de La Femme cachée, Colette rispose: «Il più grande scrittore di prosa francese vivente, io? Anche se fosse vero, non lo sento dentro di me».


Questa donna si mostra in tutta la sua infinita bellezza, ricreando la vita e la sua vita, dando forma, corpo e nome all'indicibile, misurando il momento e concedendosi il lusso di prendere distacco dal tempo. La parola, sontuosa, ritmica, catturata nella sua fugacità, la parola densa, imbevuta del quotidiano, sarà proprio quella parola a determinare la forza della sua produzione letteraria.


Diceva Catulle Mendès: «solo col tempo lei potrà valutare la forza del tipo letterario che ha creato. Tra… che ne so… venti o trent'anni, lo sapranno tutti. Allora vedrete che cosa significa, in letteratura, aver creato un tipo».


Parole profetiche, quelle di Mendès. In fondo, «non si sceglie né il tempo né il mondo», come scriverà Louis Aragon, pochi giorni dopo la morte di Colette.



Parte del mio studio sull'opera letteraria di Colette è contenuta nel mio libro, L'evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore 


giovedì 13 gennaio 2022

Le regine della filosofia. Eredità di donne che hanno fatto la storia del pensiero: il saggio filosofico a cura di Rebecca Buxton e Lisa Whiting,

L'articolo è uscito sulla rivista LuciaLibri

Una mattina di primavera appare su Le Nouvel Observateur quello che poi verrà ricordato come il Manifesto delle 343: una per una, dalla prima all’ultima, le voci delle donne che hanno abortito illegalmente. Il Manifesto è stato redatto da Simone de Beauvoir dal suo appartamento di Rue Schoelcher.  È il 1971 e da oltre vent’anni Beauvoir riflette sulla condizione della donna, una riflessione nata dall’esigenza di capire se stessa e il suo percorso: “Se voglio definirmi, devo prima dire: Io sono una donna; tutte le altre affermazioni nasceranno da questa verità fondamentale”. 



“Io sono una donna” è l’assunto, come ricordano le filosofe Geneviève Fraisse e Nancy Bauer, per il suo saggio filosofico ed esistenzialista, Il secondo sesso.  

Come con il Manifesto, vent’anni prima Beauvoir strappa il corpo della donna dall’incessante tentativo di oggettivarlo per inserirlo in una struttura (sociale e politica) dove il corpo e la voce femminili si determinano e si differenziano dall’Uomo. 

Maura Gancitano, nella prefazione a Le regine della filosofia. Eredità di donne che hanno fatto la storia del pensiero, edito da Tlon, cita proprio Simone de Beauvoir e Il secondo sesso per mettere in luce quanta strada sia necessario costruire ancora affinché la voce delle donne in campo filosofico non venga più ignorata: studi, diari, resoconti, indagini ad opera e firma di donne sono stati spesso taciuti perché giudicati senza importanza, dichiarazioni di fragilità o follia inconciliabili con l’immagine della madre-angelo del focolare che per molto tempo la società ha riservato come unica possibile condizione. Eppure, è da questa costellazione che possiamo innalzare il pensiero femminile e liberarlo dal giogo dell’invisibilità.

Albo illustrato e saggio filosofico. Le regine della filosofia a cura di Rebecca Buxton e Lisa Whiting, arriva a noi in questa veste grafica consegnandoci venti ritratti di filosofe, solo un piccolo gruppo che fa parte delle Grandi donne (alla fine del libro una lista esaustiva) che non sono state inserite (dimenticate volutamente o meno) nei manuali di filosofia e nei corsi universitari dedicati al pensiero occidentale. I loro lavori sono stati parzialmente studiati e talvolta poco approfonditi contribuendo a una storia del pensiero incompleta, frammentaria, limitando la capacità critica e venendo meno a quello che dovrebbe essere il compito della conoscenza.

Lo raccontano le ricerche condotte da Buxton e Whiting, rispettivamente dottoranda a Oxford e ricercatrice al Centre for Data Ethics and Innovation. “Non c’erano studi su donne filosofe”, ha dichiarato Buxton al Guardian. “Abbiamo trovato un libro chiamato I grandi filosofi, dove ogni capitolo parlava di un uomo e ogni capitolo era scritto da un uomo (…) e recentemente, il filosofo A.C. Grayling ha pubblicato il libro The History of Philosophy che non include capitoli su donne filosofe”. 


Continua la lettura.

lunedì 10 gennaio 2022

Nathalie Léger tra fiction e autofiction in Suite per Barbara Loden e L'abito bianco


In Una diga sul Pacifico Marguerite Duras racconta la storia della madre, una figura complessa, ambigua, temuta e desiderata, strana e straniera al tempo stesso come la definisce Wafa Ghorbel. Saranno le parole di Duras a far rivivere la madre, a dare voce all'ingiustizia subita, ai torti masticati a fatica, alla rabbia. E non è stato abbastanza Una diga sul Pacifico, sono serviti altri libri mentre l'immagine materna attraversava le pagine, un infinito riflettersi che passava dal ricordo allo scritto, dalla memoria alla parola.


«Può darsi che il linguaggio sia stato inventato proprio per questo scopo: per denunciare un'ingiustizia, per gridare a favore di qualcun altro». A parlare è Nathalie Léger a proposito della scrittura di Duras e del racconto materno arrivato a noi con Un Barrage contre le Pacifique.


Attraverso le parole di Léger, mi accorgo che nelle trame della vita altrui si cerca sempre qualcosa che possa, in un qualche modo, spiegare la nostra vita, qualcosa nel quale potersi riconoscere e riflettere. Cosa prova una donna quando si riconosce nella storia di un'altra donna?


Una donna è in silenzio, non può parlare, non ha potuto parlare, non le hanno dato il tempo. Qualcuno l'ha giudicata pazza, qualcun altro ha infangato il suo nome, altri hanno raccontato storie su di lei inventando particolari e aneddoti. Ma chi è questa donna in silenzio? Chi è davvero? Chi si può arrogare, oggi, il diritto di parlare per lei?


Ho solo queste domande mentre mi addentro nei libri di Nathalie Léger: Suite per Barbara Loden e L'abito bianco (entrambi pubblicati in Italia da La Nuova Frontiera).


Una donna interpreta un ruolo che ha scritto lei stessa, in un film da lei diretto, un film che si basa sulla vita di un'altra donna che non ha conosciuto ma nella quale si riconosce. Il film è Wanda, la regista è Barbara Loden. Uscirà nel 1970. In concorso alla trentunesima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ottiene il Premio Pasinetti come miglior film straniero. In seguito alla proiezione, Marguerite Duras dirà che in questa pellicola accade un miracolo: «normalmente c'è una distanza tra rappresentazione e testo, soggetto e azione. Qui quella distanza è annullata». Quasi trent'anni dopo, Nathalie Léger racconta di Wanda attraverso gli occhi di Barbara Loden: Suite per Barbara Loden. Leggendolo, può accadere di percepire il contrario. Lo sguardo di Wanda delinea l'identità di Loden.


«Devi essere ascoltata qualunque cosa fai», suggerirà Elia Kazan a Barbara Loden. «Wanda l'ho fatto per questo. È un modo per confermare che esisto».


Dopo la morte di Loden, durante un'intervista nella hall di un albergo nel centro di Parigi, Duras dirà a Kazan: «Wanda è un film su qualcuno… e quando dico qualcuno, parlo di qualcuno che abbiamo isolato, che abbiamo visto nella sua essenza, scardinato dal contesto sociale in cui lo abbiamo trovato. Credo che resti sempre qualcosa dentro, dentro di sé, che la società non ha intaccato, qualcosa di inviolabile, di impenetrabile, di decisivo… c'è una coincidenza immediata e definitiva tra Barbara Loden e Wanda».

Nello sguardo di Wanda, Léger si accorge di vedere gli occhi di sua madre, quel particolare modo di «scrutare il viso impassibile dell'uomo per capire e anticipare». È tra le pieghe di quella fissità inquieta che Léger intravede il volto materno, la sua esitazione, l'assurdità dei gesti, la fuga straziante, lo scoramento, lo sconforto, la stanchezza. E poi la sua storia. Léger si chiede perché sia ​​così attratta da Wanda, con la quale ha poco in comune. A differenza di Wanda, lei non è mai stata una senzatetto, non è mai stata portata in tribunale e accusata di trascurare la sua famiglia, non ha mai perso l'affidamento dei suoi figli, non è mai dipesa da un uomo per soldi. «Eppure mi è successo, una volta, l'unica, e sufficiente, di non sapere dire di no, di non osarlo dire, di cedere alla minaccia di morte».


La donna in silenzio è Wanda (che nella realtà si chiama Alma Malone) seduta in tribunale, è Barbara Loden mentre parla di sé come di un'ombra senza valore, senza dignità. La donna in silenzio è la madre di Léger che scappa da un dolore incredibile, da un vuoto dell'anima, scappa dall'abbandono e dall'umiliazione.  La donna in silenzio è la stessa autrice in ascolto del dolore materno e delle donne nelle quali riconosce quel dolore, quella stessa perdizione.


Nathalie Léger rompe il silenzio. Racconta. Un racconto che dipende «forse da questo grande arazzo in sala da pranzo e che incombe sui nostri pasti» si legge ne L'abito bianco. Di nuovo, una donna parla di un'altra donna che non ha conosciuto ma nella quale si riconosce. Tra le pagine di questo libro leggiamo la storia di Pippa Bacca, l'artista milanese brutalmente uccisa nel 2008 in un boschetto tra Izmit e Gebze durante un viaggio dall'Italia a Gerusalemme intrapreso vestendo un abito da sposa, un viaggio in autostop dal valore simbolico. Alla domanda perché in autostop, Pippa Bacca risponde che è un modo di «fidarsi del prossimo. Per dimostrare che, quando ci si fida, non si può che ricevere del bene». Voleva accogliere, Pippa Bacca. Voleva portare un messaggio di fiducia e pace, aprire le braccia all'altro, «sposare il mondo intero… un atto di suprema follia, che è quella dei santi» come ha detto Alda Merini che a Pippa Bacca ha dedicato una poesia: «Ti sei vestita di bianco / ma siccome la tua anima mi sente / ti vorrei dire che la morte / non ha la faccia della violenza / ma che è come un sospiro di madre / che viene a prenderti dalla culla / con mano leggera». È la madre di Pippa Bacca che Nathalie Léger vuole intervistare per dare corpo e linfa al soggetto del suo libro. Quell'intervista non avverrà. Léger prenderà un treno per Nizza il giorno stesso del suo arrivo a Milano, poche ore dopo aver varcato l'uscita della stazione centrale.


In questa storia c'è un'altra donna ed è la madre di Léger. Un'apparizione in Suite per Barbara Loden, il secondo soggetto ne L'abito bianco. È lei che incalza la figlia, domanda, chiede, suggerisce modifiche al libro che sta scrivendo. Propone un'altra storia: la sua. La vita della madre è anche quella della figlia e dal momento che «non hai esperienza del tuo soggetto» meglio scrivere di qualcosa che conosce, qualcosa di cui ha fatto esperienza. Ma Léger non vuole salvare i ricordi della madre dall'oblio. Vuole lasciarsi alle spalle il passato, illudendosi di trovare una certa idea di verità («ma come è fatta? Sta tra l'apparire e lo scomparire» diceva Godard riportato in epigrafe) in ciò che non ha vissuto, che può essere inventato, rielaborato, romanzato utilizzando ciò che gli altri hanno vissuto.


È nella fuga dal suo passato che Léger fa i conti con grumi di parole rimaste sul fondo dei ricordi della madre. Lì si annidano l'umiliazione subita, il rimpianto dei non detti, la tragedia del silenzio. La madre diventa la storia. Pochi oggetti per descriverla. L'abito da sposa immacolato, mostrato alla figlia in cucina, e il faldone, quello che contiene la verità. Alla figlia il compito di trasformarlo in un memoriale di parole per poi tornare al suo soggetto iniziale, Pippa Bacca.

 

Manca la traduzione italiana di Exposition per completare il trittico di Nathalie Léger. Tre opere che si completano a vicenda e che uniscono la biografia all'autobiografia, l'arte al cinema, la narrativa alla saggistica.


Si ritorna sempre alla stessa sofferenza, a quell'impasto atavico che alita sulla nostra vita riscaldando i giorni. Come Duras, anche a Léger non è bastato un libro. Aveva bisogno di più spazio e più parole per raccontare la storia di sua madre e delle donne nelle quali ha ritrovato i suoi occhi e le sue esitazioni, la sua impotenza e la sua lacerazione. Con determinazione Léger ha guardato in faccia le sue ossessioni e con coraggio le ha chiamate con il loro nome.