domenica 19 dicembre 2021

Premio Le citta delle donne: la prima edizione a Palazzo Altemps

 Si è svolta a Palazzo Altemps la prima edizione del Premio Le Città delle donne, nato dall'omonima rivista diretta dalla scrittrice, giornalista e conduttrice radiofonica Mariagloria Fontana (vicedirettrice la poetessa e critico Gisella Blanco) e con la quale ho il grande piacere di collaborare (qui per leggere gli articoli ad oggi pubblicati).

La premiazione si è svolta giovedì 16 dicembre alle ore 18.00. 



A introdurre l'evento, il direttore di Palazzo Altemps, Stéphane Verger, cui ha fatto seguito la cerimonia di premiazione presentata da Mariagloria Fontana con la presenza del Ministro Dario Franceschini che ha conferito il premio a Elisabetta Sgarbi, alla scrittrice Nadia Terranova, alla poetessa Luigia Sorrentino, alla giornalista Tiziana Ferrario, alla scrittrice e conduttrice radiofonica Loredana Lipperini e alla ex presidente della Camera Laura Boldrini. 


il Premio è nato con l'intento di riconoscere il ruolo rilevante svolto dalle donne, sia come autrici sia come fruitrici, all'interno del mondo culturale e sociale. In Italia infatti sono soprattutto le donne che leggono libri, vanno a teatro e partecipano a iniziative socio culturali.


Come spiegano le motivazioni, Elisabetta Sgarbi, è stata premiata perché «con intelligenza, intuito e talento fuori dal comune, ha saputo nutrire e innovare la cultura e l'editoria italiana, prima in qualità di direttrice editoriale Bompiani, come direttrice artistica de La Milanesiana e poi come cofondatrice e direttrice de La Nave di Teseo».


Nadia Terranova «con la sua penna raffinata, sempre attenta alle dinamiche familiari e alle figure femminili, sia come curatrice di progetti e collane editoriali che come autrice di libri per ragazzi, ha portato alla ribalta le fragilità e diversità del genere umano, mettendo in luce anche le tematiche riguardanti la diversità di genere all'interno del dibattito culturale italiano».


Tiziana Ferrario «con la sua pluridecennale esperienza da inviata di guerra e come storico volto della Rai ha sostenuto le tematiche femminili, testimone di realtà spesso lontane dai nostri occhi di spettatori, raccontando con coraggio soprusi e disuguaglianze, nell'ambito di realtà dimenticate che riguardano le minoranze, le donne e i bambini in alcuni Paesi in gravi difficoltà e in guerra».


Loredana Lipperini «attraverso la scrittura e la sua trasmissione radiofonica Fahrenheit ha portato nelle case degli italiani la cultura, gli scrittori, i libri, le idee».


Luigia Sorrentino «voce lirica tra le più influenti del panorama letterario nazionale, si distingue anche come giornalista dedita alla cultura e alla società e come pionieristica divulgatrice di poesia in Rai».


Laura Boldrini, «alta funzionaria dell'Onu e presidente della Camera dei Deputati, per l'impegno istituzionale, politico e sociale con cui ha supportato le pari opportunità tra uomo e donna, avendo messo in luce le differenze cui le donne sono ancora sottoposte nel lavoro, nella società, nel linguaggio».


mercoledì 1 dicembre 2021

Anaïs Nin, Spreco di eternità e altri racconti: tra sperimentalismo e narrazione surrealista

L'articolo è uscito sulla rivista Le Città delle Donne 



Audace, introspettiva, brillante, travolgente, perennemente irrequieta, come lei stessa si definisce in una lunga intervista «anche quando possiedo tutto –amore, devozione, Henry, Antonin, Allendy– sento ancora me stessa posseduta dal grande demone dell'irrequietezza che mi guida ancora e ancora (...) tutto il giorno mi sento protesa, spinta in avanti. Riempio pagine e pagine con la mia febbre, con questa sovrabbondanza di estasi, ed ancora non è abbastanza. Ho Henry e ho ancora fame, ancora vado cercando, ancora in movimento –non riesco a smettere di muovermi. Solo Henry percepisce il mostro, perché anche lui ne è posseduto». E tale mostro trafiggerà la sua scrittura.

Nelle vene di Anaïs Nin scorre il sangue danese e francese, spagnolo e cubano dei genitori. Dopo un'infanzia a Neuilly-sur-Seine, sobborgo di Parigi (dove Clifford Barney avrebbe organizzato il Salon che nominava l'Académie des Femmes, luogo di passaggio di nomi illustri quali Colette, Marguerite Yourcenar, Djuna Barnes, Mata Hari...), il padre, Joaquin Nin, compositore e pianista, abbandona la famiglia perché infatuato di una sua studentessa di pianoforte. Messa alle strette economicamente, la madre decide di trasferirsi con i figli a New York dove avrebbe avuto più possibilità di mantenerli. Nonostante Joaquin Nin fosse un padre e un marito discutibili, il suo allontanamento da casa gettò Anaïs in un profondo turbamento.


Una lunga lettera al padre sarà l'inizio del suo diario: oltre trentacinquemila pagine (con una storia editoriale tormentata) che, oggi, rappresentano l'opera magistrale di Nin nella quale l'arte della scrittura si intreccia al racconto erotico con una sapienza e una maestria senza eguali. È tra le pagine di questo diario, iniziato poco più che fanciulla, che avviene la metamorfosi di Nin: da immigrata americana che non ha altro interlocutore che un mucchio di pagine bianche alle quali affidare i suoi più reconditi segreti, le sue paure e le sue aspirazioni, a giovane donna mossa da una fervida filosofia letteraria e da uno stile narrativo inedito.


Ha sempre saputo che avrebbe scritto, «lascerò una cicatrice sul mondo». Inseguiva, irrequieta e affamata, sola nella sua incessante ricerca, la risposta alla domanda sul significato di essere donna e di essere donna scrittrice. Erano i primi decenni del Novecento, le lotte femministe dell'ultimo Ottocento e si stavano ripercuotendo sulle coscienze delle donne di quel periodo pur con una consapevolezza maggiore e una risposta ancora più grintosa verso "l'oppressore e il patriarca bianco".


Parigi accoglierà Anaïs Nin nella sua luminosa magnificenza. La Belle Époque stava cedendo il posto ai nazionalismi ma la lost generation di Hemingway, espressione rubata a Gertrude Stein, bivaccante nei café parigini e nei teatri della capitale francese si fa abbracciare dalla sinfonia gracchiante dei grammofoni, la quale confonde gli animi ancora inconsapevoli che una seconda grande guerra avrebbe scosso l'intera Europa, e non solo, di lì a qualche anno.


Legata da una decina di anni a Hugh Guiler, il "banchiere della East Coast", nonché cineasta, surrealista e uomo pervaso dall'amore per la fotografia, morto nel 1985 nel suo appartamento di New York, Anaïs Nin trova a Parigi il terreno fertile per la sua fame letteraria.

È qui che conoscerà e avrà relazioni intime, nel tempo, con Antonin Artaud, «il volto delle mie allucinazioni. Gli occhi allucinati. La nitidezza, caratteristiche scolpite dal dolore. Il sognatore, innocente e diabolico, fragile, nervoso», con Henry Miller, amico e amante, modello letterario, confidente («sono stanca Henry, stanca da morire di aver bisogno di cose, di volere cose»), con René Allendy e Otto Rank, entrambi psicanalisti. Nessun uomo, nessuna relazione potrà mai competere con la storia, con l'Uomo, le Re Soleil, come spesso amava definirlo: il padre Joaquin. L'incontro, il primo vero incontro, dopo un'assenza di vent'anni, risale al giugno del 1933. Ma questo Anaïs Nin ancora non lo sa e non può immaginarlo.


Gli anni precedenti sono quelli della sua prima prova letteraria, D.H. Lawrence. Uno studio non accademico e dei racconti, recentemente pubblicati da La Tartaruga edizioni, in Spreco di eternità nella traduzione di Stefania Forlani e Valeria Gorla e con la prefazione di Gunther Stuhlmann e introduzione di Allison Pease.


Entriamo nel vorticoso e labirintico inconscio dell'autrice. Racconto dopo racconto, si dipana la sua ricerca, urgente e incessante, di conoscere e capire l'identità femminile, il profondo significato di essere donna e di essere donna scrittrice. Tra queste pagine ritroviamo ciò che rappresenterà la materia letteraria di Nin negli anni successivi: la divisione tra io privato e io pubblico, la frammentazione della voce narrativa, la sperimentazione e l'artificio linguistico, la scrittura evocativa, la narrazione del desiderio e del godimento. L'oscillazione tra finzione e realtà, la tendenza a trasformare la fantasia in verità, giocando ora con l'una ora con l'altra, mettendo al centro della scena se stessa o una delle tante donne che è stata e che sarà. Attingere alla molteplicità della propria persona: «le donne vedono se stesse come in uno specchio negli uomini che le amano. In ogni uomo io ho visto una donna diversa e una vita diversa».


Anaïs Nin utilizza a suo piacimento la creatività e l'immaginazione costruendo una pluralità identitaria che poggia sulla conoscenza della psicanalisi derivante dalle sue frequentazioni soprattutto con Otto Rank. La scenografia che fa da sfondo si regge sulla fantasia e sull'amore per l'arte come essenze dell'esistenza e della verità.


Nella giovane Nin, autrice di questi racconti, non è difficile intravedere la donna che diventerà qualche anno dopo, colei che rintraccia nei libri «l'incredibile esistenza di mondi più vasti e ancor più fantastici». È alla ricerca di sé e di ciò che la circonda, di quell'essenza che va comprendendo fin da quando è bambina.


In Spreco di eternità il filo sottile della narrazione intreccia la parola all'immagine e al suono. Le storie ora si infittiscono ora si dilatano, talvolta prendono direzioni inaspettate, si allontanano dal punto di partenza per poi ricongiungersi con il pensiero iniziale dell'autrice.


Lolita e Mariette, Chantal, Aline, Anite… sono solo alcune delle donne raccontate da Anaïs Nin, riflesso della stessa autrice che vuole scrivere di cose «impenetrabili, ignote, usualmente indescrivibili» e vuole dare forza a «valori spirituali che di solito sono menzionati in maniera vaga e generica, una luce che la maggior parte delle persone segue ma non riesce a comprendere davvero».


E noi siamo qui, Anaïs, pronti ad accogliere e comprendere le tue storie mentre racconti del «mondo con sguardo nitido e parole trasparenti».

martedì 5 ottobre 2021

Nobel Letteratura 2021: Annie Ernaux tra i favoriti


Annie Ernaux è tra i favoriti al Premio Nobel per la Letteratura. La giuria, composta dai 18 membri dell'Accademia svedese, svelerà il nome giovedì 7 ottobre. Già finalista al Man Booker International prize 2019 con Gli anni, Annie Ernaux è una delle autrici più quotate al Nobel. Dopo di lei, Anne Carson, Haruki Murakami, Ludmila Ulitskaya e Margaret Atwood. 


Ellen Mattson, dell'Accademia svedese, ha dichiarato che ciò che conta per i membri della giuria: is always just excellent literature The winner needs to be someone who writes excellent literature, someone who you feel when you read that there’s some kind of a power, a development that lasts through books, all of their books. But the world is full of very good, excellent writers, and you need something more to be a laureate. It’s very difficult to explain what that is. It’s something you’re born with, I think. The romantics would call it a divine spark.”


In attesa di sapere il nome del Nobel, una riflessione sull'opera letteraria di Annie Ernaux.


Inizialmente è la finzione. I primi tre libri pubblicati e identificati come romanzo: Gli armadi vuoti, Ce qu'ils disent ou rien e La donna gelata. Successivamente, il racconto autobiografico con Il posto. Ma quest'ultima categoria non soddisfa Ernaux in quanto, pur mettendo in evidenza un aspetto fondamentale della sua scrittura (diametralmente opposto a quello di un romanziere), non dice nulla sullo scopo del testo, sulla sua costruzione. Se, a detta di Ernaux, Il posto, Una donna, La vergogna e, in parte, L'evento sono meno autobiografici che auto-socio-biografici, mentre Passione semplice e L'occupation sono analisi sulla modalità delle passioni, è altresì vero che i testi del periodo cosiddetto autobiografico sono soprattutto esplorazioni dove non si tratta tanto di dire l'io o di ritrovarlo, quanto di perderlo in una realtà più vasta, una cultura, una condizione, un dolore. rispetto alla forma del romanzo degli inizi, Ernaux dice di avvertire la sensazione d'una immensa e terribile libertà: «nello stesso momento in cui ho rifiutato la finzione, tutte le possibilità della forma si sono aperte».

Annie Ernaux osserva lo spazio delle possibilità che le si palesano difronte. Consapevolmente o meno, non può fare altro che immaginare la forma del romanzo per la sua prima prova letteraria, Gli armadi vuoti. Annie Ernaux racconta il destino di Denise Lesur e insieme la storia di una generazione. Studentessa e figlia di bottegai della periferia parigina, Denise Lesur è protagonista della drammatica esperienza dell'aborto clandestino che potrebbe mettere fine ai suoi sogni universitari e alle speranze di riscatto sociale che i genitori ripongono nella loro unica figlia.

«Per un po' ho avuto il desiderio di non scrivere in prima persona ma in terza e tirare a sorte su quale utilizzare. È uscita la prima persona ma credo che l'avrei ugualmente utilizzata. Perché, all'interno di questo quadro fittizio, procedo a un'anamnesi di ciò che mi è accaduto realmente: la bambina del bar-drogheria, gli studi, l'università, l'aborto, il dolore. Tutto ciò che vive Denise Lesur l'ho vissuto anch'io.  Nel contenuto, non trasformo la realtà e non la trasfiguro nemmeno, se è per questo!  Piuttosto mi ci tuffo».

«Nella parola romanzo metto letteratura». E ancora più romanzo lo è il secondo libro, Ce qu'ils disent ou rien costruito sul ricordo degli eventi di un'estate vissuti da Anne, una ragazza di quindici anni. Scritto durante le vacanze estive del 1976, stagione della grande siccità, Ernaux ha la sensazione di immergersi nei sentimenti di quell'adolescente, di ritornare lei stessa ad essere una quindicenne.

La donna gelata viene considerato da Ernaux un testo di «transizione verso l'abbandono della finzione nel senso tradizionale del termine». Così come ne Gli armadi vuoti vi è un'esplorazione di una realtà che affonda nell'esperienza personale rivelando un sentire collettivo, ne La donna gelata l'esplorazione si sposta sul ruolo femminile. «Negli incontri che ho avuto quando è uscito questo libro, ho notato che nessuno lo leggeva come un romanzo ma come un racconto autobiografico.  Non ne sono stato affatto infastidita, da nessun punto di vista, né personale né "letterario".  In quel periodo, nel 1981, e per diversi anni, mi ero posta molte domande sulla scrittura e non confondevo più letteratura e romanzo, letteratura e trasfigurazione della realtà.  Avevo, inoltre, cessato di definire la letteratura».

E difatti, fin dalle prime pagine de La Femme gelée vengo trascinata da una forza inusuale. È la lingua di Ernaux. Affilata, tagliente. Non si risparmia. Ho come la vaga sensazione di essere travolta da qualcosa di più grande. L'"io" dell'autrice rimesta nel torbido dei ricordi. In questa discesa nel "secondo sesso", Annie Ernaux descrive il percorso di una donna che, a ritroso, si accorge di lasciare «sempre meno di quel che crede».

In questa discesa nella scrittura del proprio io, Ernaux si cala nella «réalité sociale», dando un nome a ciò che non era concesso nominare, tratteggiando i contorni del «Féminin et féminisme». Tra identità e alterità si scopre donna in grado di prendere decisioni sul proprio corpo e sulla propria persona, coinvolgendo il lettore, facendolo partecipe attivo dell'esperienza vissuta.

Annie Ernaux trasferisce sulla carta quella che Natalie Froloff ha denominato «infrastoria», nella quale confluiscono branche della conoscenza «notoriamente distanti» tra loro come la sociologia e la letteratura. L'evento porta in nuce l'unione di questi ambiti per descrivere una storia personale e intima di denuncia contro i dogmi sociali di quel periodo.

Come scrive Valeria Lo Forte, «le esperienze più scandalose sono testimonianze doverose contro il silenzio: il racconto dell’aborto clandestino è denuncia di uno scacco sociale e infrazione di un tabù letterario». Va da sé che disvelare «la dominazione sociale e quella dell’ordine simbolico rimane fondamentale per la scrittrice, che nonostante l’approdo al mondo intellettuale continua a scrivere dai margini di Parigi» (come ha avuto modo di osservare Pierre Bras ne La révolte esthétique d’Annie Ernaux).

L'evento si colloca tra i testi di Annie Ernaux che inscrivono il sociale nello stile e lo sviluppano attraverso lo stile narrativo e linguistico. Il fil rouge che unisce la sociologia alla letteratura si staglia, con prepotenza, sul testo entrando in contatto diretto con lo stesso.

La parola diventa anello di congiunzione tra esperienza intima e personale ed esperienza collettiva. Dalla parola di Ernaux traspare una presa di coscienza e di responsabilità della realtà sociale vissuta e poi raccontata. Attraverso una forma metatestuale, giocando con il testo e con le sue infinite interpretazioni, con archetipi, simboli e modelli che saturano lo scritto ernauxiano, si entra in totale alchimia con la narrazione autobiografica mutata in autosociobiografia.

«Ho creato un collegamento confuso tra la mia classe sociale originaria e ciò che mi stava accadendo». L'evento è lo scritto nel quale l'autrice diventa emblema della classe operaia di provenienza ed è anche il libro nel quale intravedo il legame tra Ernaux e le donne della sua vita.

In un'intervista rilasciata nel maggio 1993 e citata da Isabelle Charpentier, Annie Ernaux sostiene che «la scrittura può mostrare. Mostra altro rispetto a un documentario o al lavoro di un sociologo».

Le pagine de L'Événement ripercorrono i paesaggi della memoria, diapositive personali, istantanee che appartengono ai viali alberati di Rouen, alla campagna di Yvetot, ai palazzi in rovina di (mettere città donna gelata). La parola scorre tra l'impalcatura di un cantiere testuale in costante costruzione dove il tratto biografico si modella abbracciando una voce comune in perenne tensione verso «verità che non siano di ordine semplicemente individuale… ciò che trovo devono essere verità collettive». Annie Ernaux parla di storia transpersonale a proposito della sua scrittura: «l'“io” sarebbe legato a una forma impersonale, appena sessuata, a volte addirittura più una parola dell'“altro” che una parola del “me” (…) personale, autobiografico, ma non individuale. Penso di scrivere perché assomiglio a tutti gli altri. È la parte di me che somiglia a tutti quelli che vogliono scrivere».

Privandosi dell'io, Annie Ernaux «si fa attraversare dagli altri per rivelarsi a se stessa», «pour y retrouver le monde» mentre la sua opera viene interamente messa nelle mani del lettore. 


Parte del mio studio sull'opera letteraria di Annie Ernaux è contenuta nel mio ultimo, L'evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore libro 

venerdì 10 settembre 2021

Intervista a Antonio Pascale

Sulle parole che perdono il loro significato, smarrendo la connotazione originaria nell’etere della virtualità, sulla condizione umana che di virtualità sembra vivere, soprattutto da un anno a questa parte, sulla poesia, sulla letteratura, sugli «acrobati del tempo», ho provato a discutere con Antonio Pascale. E l’ho fatto partendo dalle sue parole, quelle scritte esattamente un anno fa. Ne è nato un ritratto, un’istantanea sul nostro tempo fatto di incertezze e fragili equilibri.




Circa un anno fa, in un articolo per Il Post, ti chiedevi: «noi uomini siamo il problema o la soluzione?». Un anno dopo, quale risposta daresti alla stessa domanda?

Né l’uno ne l’altra, o meglio in parte problema in parte soluzione. Allora, un anno fa, riflettevo, prendendo come spunto il lockdown, su questo tema: da una parte ci accusiamo continuamente di danneggiare il creato dall’altro vogliamo un mondo migliore. Che tradotto significa un mondo in cui 8 miliardi, e fra poco 10 miliardi di cittadini, abbiano la loro quota di benessere, un arco di pace che copre più generazioni, cibo in abbondanza, consumi, viaggi. Ecco, questo mondo, in parte, lo stiamo ottenendo, l’aspettativa di vita è alta in quasi tutto il mondo (semmai c’è un problema di invecchiamento della popolazione), la mortalità infantile ha cifre bassissime (tranne in alcune aree povere del pianeta), la mortalità delle donne per parto è bassissima (tranne in alcuni Stati Africani e in alcune regioni del pianeta molto povere), su otto miliardi di persone, gli affamati sono 800 milioni, riusciamo a produrre di più con meno risorse, viviamo in un’epoca di pace e le disuguaglianze solo alte all’interno di alcuni Stati, ma tra gli Stati sono più basse (segno forse di una distribuzione di ricchezza). Ecco, queste cose costano. Ci vuole energia per migliorare ancora le cose e le transizioni energetiche non sono velocissime, anzi, a tutt’oggi per fare energia pulita utilizziamo fonti fossili. La sensazione è che il benessere non porta riflessioni in tal senso, ma solo protezione del proprio ristretto habitat. Quindi ragioniamo su piccola scala, e con arco di tempo limitato e di tanto in tanto ci sfoghiamo: siamo i distruttori del pianeta. Insomma, il problema vero è che siamo troppi e siamo troppi perché moriamo di meno, sono stati fatti notevoli passi in avanti (medicina, antibiotici, migliore alimentazione), quindi la nostra impronta ecologica si fa e si farà sentire. Che vogliamo fare? Abbassare il tasso di natalità al di sotto dell’indice di sostituzione (come in Italia) e quindi lentamente andarsene, smettere con la riproduzione? Oppure vivere al meglio i nostri giorni, collaborando e aiutandoci, sostenendoci? Se siamo un problema dobbiamo ammettere che lo siamo non perché distruggiamo, ma anche perché creiamo posti migliori dove vivere e appunto vogliamo vivere e siamo in tanti a volerlo fare. Se siamo la soluzione, dobbiamo fare in modo di rendere più sostenibili le nostre scelte sapendo che queste comunque avranno un peso, un’impronta ecologica: la perfezione e la purezza non esistono, vivere significa imparare a morire (cioè, non credersi speciali) crescere significa accettare le responsabilità.

 

Di mondo senza uomini, di mondo eterno, ne parla André Malraux nella sua celebre opera La condizione umana. Il libro è l’occasione per riflettere sull’incomunicabilità tra gli uomini, l’impossibilità di entrare in relazione con l’altro (e in questo ritroviamo Camus, ritroviamo Gide). Toccare il fondo dell’esistenza umana, sondare l’insondabile, sentire la vita per dare un nome all’indicibile: questo sembra suggerire Malraux senza comunque dare risposte definitive. Agamben dice che «la poesia si sostituisce in extremis alla filosofia nel punto in cui questa fallisce di fronte al compito di un’esposizione dell’indicibile». Pensi che le parole Agamben sulla poesia (e la parola poetica) possano dare una risposta alla sofferenza umana di cui parlava Malraux?

Con molta franchezza: non so cosa significhi indicibile. Mi sembra una parola ameba, di quelle che fanno sembrare intelligente chi la pronuncia e quelli che ascoltano, ma che non aiutano a descrivere situazioni e contingenti. Non credo nemmeno all’inconscio, quindi toccare il fondo, nel senso di arrivare a un punto oscuro e rivelatore, è una pratica culturale che ha i suoi aspetti simbolici ma per me non istruttivi. Credo che abbiamo una mente piatta, il cervello altro non è che un gran improvvisatore, bravo a raccontare storie e a far tornare elementi che non tornano (non facciamo altro che raccontarci, confabulando con noi stessi, storie che ci definiscono). Spesso nella realtà ci sono anche gli altri, e gli altri leggono in modo diverso quello che diciamo e allora noi ci rendiamo conto dei buchi della narrazione. Ma i buchi non rappresentano l’inconscio, almeno non nel senso classico del termine, sono solo non detti o cose dimenticate perché fanno male oppure creano problemi. Qui possiamo fare due cose, riconoscere i suddetti buchi e con onestà lavorare per migliorarli o trovare giustificazioni e pezze. Dipende da noi, dai momenti, dagli stati d’animo e dalle mille facce dell’improvvisazione. La condizione umana, poi, per me, altro non è che TMT Terror Management Theory. L’antropologo culturale Ernest Becker fu uno dei primi a pensarci (già nel 1973, con il libro The Denial of Death). Gli umani – scrisse- sono umani perché in grado di cogliere l’inevitabilità della morte. Un bel guaio, perché nessuno in questo campo sa davvero nulla e mai sapremo nulla. Per forza sale l’ansia. Metti poi che la morte è nella nostra scaletta, può arrivare in momenti inaspettati e casuali, capite perché la maggior parte di noi trascorre il tempo (e spesso spreca energia) per spiegare perché si muore, o per prevenire o procrastinare la morte. O costruire strutture narrative che ci confortano: non soffrirai, perché un giorno scoprirai il senso di tutto, la ragione del tuo travagliato cammino: storie con il loro effetto placebo. Un cosa antica: chi è stato il primo uomo che ha seppellito un suo simile? E perché? Perché non voleva vedere il suo ghigno cadaverico? Perché ha avuto paura che quell’essere, ora steso per terra e poco prima affianco a te, potesse rialzarsi e spaventarti? Perché in quel cadavere scorgiamo la nostra stessa vera natura? O forse puzzava, e allora meglio seppellirlo, o forse la vicinanza con i morti portava infezioni? Quello che è sicuro è che durante il Paleolitico superiore, queste pratiche di sepoltura non sono ovvie, veloci, copri con un po’ di terra, e via. I morti sono vestiti, resi belli, decorati con migliaia di perline. C’è sempre il cibo nel tauto, quindi si immaginava, si credeva che fosse una morte apparente, il nostro si sarebbe svegliato in qualche luogo o sarebbe passato in un altrove e in ogni cosa il cibo era lì, con le giuste calorie. Dunque, per far fronte alla suddetta onda ansiogena che sale su, e dai tempi ancestrali, cerchiamo rimedi: l’autostima per esempio (cazzo, ci sono, valgo, conto, faccio un discorso motivazionale e ti faccio vedere che vittoria raggiungo), oppure le regole: siamo qui per uno scopo, lavorare per l’aldilà. Poi è ovvio, sono storie che il nostro cervello, improvvisatore com’è, mette in piedi, ma è un attimo e l’autostima o le credenze religiose o gli altri valori, da strumenti protettivi (si selezionano perché garantiscono la sopravvivenza) diventano insopportabili rotture di coglioni, nonché fonte di disagi personali, sociali e problemi vari: e allora parliamo di condizione umana e indicibile.

 

Bataille nell’opera L’Erotismo dice che la poesia, citando i famosi versi di Rimbaud, «conduce al punto stesso cui porta ogni forma di erotismo, vale a dire all’indistinto, alla confusione degli oggetti distinti. La poesia ci conduce all’eternità, essa ci conduce alla morte, alla totalità: la poesia è l’eternità. E’ il mare convenuto col sole» (C’est la mer allée / Avec le soleil). Anche qui, se vogliamo, ritroviamo l’esposizione all’indicibile di Agamben.

Non lo so, la poesia è di quelle cose meravigliose perché ci inducono al silenzio.

 

A proposito di Rimbaud. Paul Valery decantava l’intensità dei suoi versi in grado di guidarlo (insieme ad altri poeti) oltre i confini del linguaggio poetico, ove si scorge l’indicibile. E’ sul piano della parola poetica che possiamo toccare il fondo dell’esistenza umana, risolvendo i limiti dell’incomunicabilità per (ri)trovare il nostro posto nel mondo e sentire, di nuovo, come la prima volta, la vita?

Vuoi dire (perché se è indicibile non possiamo dir nulla) che l’arte è tutto quello che ci fa sentire la vita in modo più intenso, anche perché, se un artista è bravo descrive il mondo, usa la pratica dello straniamento? Cioè, ci fa vedere le cose usuali come se fossero viste per la prima volta? Se è così, sono d’accordo. L’arte può contribuire a fondare un’arca di Noè, con tutti i ricordi e le descrizioni del mondo visti come se fossero nuovi elementi. Li analizzi, rifletti e ti senti protetto, quasi come se avessi più tempo.

 

Uomo, ambiente, tempo, radici, memoria. Qual è il rapporto tra queste parole e i tuoi libri, i seminari, i convegni e quale di queste parole hanno maggior rilievo nella tua vita?

Il rapporto è questo: radici (quelle cose che ci hanno formato) ambiente (quello che ci ha costretto o a saldare le radici, le convinzioni o ad allargare l’areale radicale, quindi a cercare altro), memoria (identità e anche qui è una potenzialità definirsi e un limite, perché i confini sono fatti per circoscrivere ma anche per avere una base sicura dalla quale gettare ponti) e sopra ogni cosa, il tempo e aggiungerei caos.

 

A quali scrittori (e quindi a quali opere) ti senti maggiormente legato?

Facciamo che te ne cito tre. Iliade (perché è un’indagine sulla prima emozione umana, l’ira e le sue declinazioni, tra cui, dopo l’ira, la pace), The Elephant Man di David Lynch, perché è un meraviglioso saggio sullo sguardo e sui limiti dello sguardo (e lo sguardo è il nostro strumento privilegiato per conoscere e per accusare) e una ninna nanna qualunque, perché probabilmente è stata la prima forma d’arte che i sapiens hanno prodotto per calmare l’ira, la rabbia, cercare la pace e uno sguardo più sano.

 

 

Antonio Pascale è scrittore, giornalista e saggista, autore televisivo. E’ ispettore agrario Mipaaf. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, Il Post, Il Foglio, lo Straniero, Limes, Mind. Tra le sue pubblicazioni La città distratta (Einaudi, 2001), Passa la bellezza (Einaudi, 2005) S’è fatta ora (Minimum Fax, 2006), Pane e pace. Il cibo, il progresso, il sapere nostalgico (Chiarelettere, 2012), Le Attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013), La manutenzione degli affetti (Einaudi, 2014), Le aggravanti sentimentali (Einaudi, 2016).

Intervista a Maria Grazia Calandrone

Nell’economia della parola, limpida, diretta, acuminata, Maria Grazia Calandrone svela l’immensità della vita consegnandoci immagini capaci di restare nella memoria del lettore per la loro forza e la loro energia. Lo abbiamo visto nella poesia e nella narrativa, in quest’ultima un lirismo che risente della voce poetica. Conversare con Calandrone delle vertigini della lingua è un piacere che va al di là della pura immersione nel fatto linguistico. E’ conoscenza, è confronto, è scavo nella bellezza della parola scritta.

Ho avuto occasione di incontrare Maria Grazia Calandrone nell’ultima edizione di Umbria Green Festival nella serata dedicata a Andrea Zanzotto. Con lei, è stato tratteggiato un dipinto del poeta senza tempo di Pieve di Soligo, uomo  continuamente proteso verso una dimensione altra. Lo scorso anno è stato dedicato al centenario della nascita di Zanzotto e noi abbiamo voluto ricordare, nuovamente, questo poeta della parola attraverso la voce di Calandrone che della parola ha fatto la sua ragione di vita.

 




La poetica di Andrea Zanzotto sembra essere ancorata alla memoria da cui trae forza per guardare al futuro. La sua parola è protesa in avanti. Come si sposa la tua ricerca letteraria a quella di Zanzotto?

Zanzotto mi sembra uno di quei poeti che vive nel senza tempo, tutto quello che attinge dal passato lo rilancia. È onnivoro e onnicomprensivo e in questo, con totale immodestia, dico un po’ somiglia a me, anche io sono onnivora e onnicomprensiva e quello che mi affascina di lui è il suo scavo nel linguaggio cioè il suo guardare le parole come se fossero degli oggetti. Questa è una cosa che mi sembra straordinaria della poetica di Zanzotto. I testi scelti per l’omaggio a Zanzotto (serata Iperzanzotto all’anfiteatro a Carsulae in occasione di Umbria Green Festival 2021, ndr) sottolineano proprio questo: le parole di Zanzotto sono sassi in un campo d’erba, cose solide, sono anche oggetti naturali, è come se lui avesse una tale fiducia nel linguaggio da considerare le parole oltre che un mezzo di trasporto proprio degli oggetti della natura e questo rappresenta per me una lezione straordinaria.

 


Andrea Zanzotto e Dino Campana. Nel 2019 è uscita per Ponte alle Grazie l’antologia da te curata e dedicata a Dino Campana, Preferisco il rumore del mare. Anche Andrea Zanzotto si è accostato a Dino Campana (Il mio Campana, a cura di Francesco Carbognin, Clueb, 2011). Cosa ci puoi dire di loro due e di questa comune immersione (tua e di Zanzotto) nella poetica di Campana?

Zanzotto e Campana. Li accomuna una follia sana che porta ad essere entrambi assolutamente eversivi nel linguaggio. Su questo apro una parentesi per spiegare che con Campana c’è stato un grande fraintendimento sulla sua figura umana, perché Campana era semplicemente un ribelle che non si adattava all’ipocrisia piccolo borghese del suo paese, quindi, è stato condannato come se fosse pazzo ma non era pazzo. È stato etichettato come tale, allo stesso modo di Alda Merini… insomma tutte queste etichette che vengono date alle persone che si discostano in un qualche modo dalla maggioranza. Zanzotto è differente nel senso che lui ha sofferto del suo essere laterale rispetto all’esistenza quindi un aspetto che lui attribuiva a se stesso (a differenza di Campana che ne faceva un vanto). Per Zanzotto questo suo sentire era vissuto come una sofferenza ma nel linguaggio ha osato di più di quanto abbia osato Campana. Dino Campana ha osato nel ritmo mentre Andrea Zanzotto ha frantumato la lingua, l’ha fatto esplodere e quindi si può dire che ha riversato tutta la sua parte di follia asmatica nel linguaggio.

 


Leggendo Andrea Zanzotto mi accorgo di essere difronte a una lingua che si dissolve nel corpo.

La lingua di Zanzotto è una lingua fisica, fisica nel senso scientifico e nel senso corporale. È una lingua che diventa materia quindi in questo senso si può anche intendere che la sua lingua si scioglie nel corpo nel senso che è corpo che diventa lingua ed è lingua che torna a essere corpo. C’è sicuramente, per il principio dei vasi comunicanti, una comunicazione continua tra il linguaggio e la materia all’interno della poesia di Zanzotto.

 


Quando Andrea Cortellessa ti ha coinvolta in questo progetto di commemorazione di Andrea Zanzotto cosa hai pensato e come hai vissuto questo i momenti che hanno preceduto la serata di Iperzanzotto in relazione ai tuoi progetti di scrittura attuali e futuri?

Tendo ad occuparmi di quello che mi sembra bello e la lingua di Andrea Zanzotto mi sembra veramente una finestra sul mondo di conoscenza continua e di continua scoperta. Quando dico che è una scoperta intendo proprio il fatto di aver letto più volte i testi scelti per l’omaggio a Zanzotto e ogni volta scopro qualcosa di nuovo, ogni volta sono diversi. La poesia di Zanzotto è una poesia metamorfica è inesauribile e questa è una qualità precipua della sua scrittura. E mi sono sentita orgogliosa e onorata di essere stata coinvolta in questo progetto.

 


Se ti chiedessi di accostare un quadro (o un pittore) alla poesia di Andrea Zanzotto quale (o chi) sceglieresti?

Penso a J. H. Füssli e F. Bacon per la figura cambiata dalla contemporaneità, la figura sottoposta anche ai suoi incubi, la figura trasfigurata dalla storia. C’è una forte malinconia in Zanzotto, la malinconia del tempo perduto però rilanciato, come dicevamo al principio, in un tempo futuro. A questo penso coniugando la poesia di Zanzotto a Füssli e Bacon. Poi, restando sempre nel campo dell’immagine, non si può non ricordare che lui ha lavorato con Fellini. Tra i brani che ho scelto per la serata Iperzanzotto c’è un pezzo rappresentativo, quasi pornografico, omaggio al corpo femminile quindi un testo che sembrerebbe discostarsi da quanto sto affermando.

 


Perché hai scelto proprio questo brano?

La scelta è motivata dalla questione delle donne afgane. Mi piaceva fare un omaggio per la voce di Andrea Zanzotto, un omaggio al femminile. Gli altri tre brani sono una filastrocca da Dietro il paesaggio di un Zanzotto trentenne che è già stato attraversato dalla morte, dalla perdita delle sorelle e la sua malinconia è attraversata dalla rima, mi piaceva infatti mostrare Zanzotto in rima. Concludo con due testi da Il galateo in bosco (nel mezzo ci sarà anche qualcosa di mio come mi è stato chiesto da Andrea Cortellessa) che rappresentano il puro piacere dello scavare nella lingua. Quindi iniziamo con un omaggio al femminile e concludiamo con un omaggio all’esistenza.

 


Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice Rai, scrive per «Corriere della Sera» e tiene laboratori di poesia nelle scuole e nelle carceri. Ha pubblicato numerosi libri di poesia tra cui: La scimmia randagia (Crocetti 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier 2005), La macchina responsabile (Crocetti 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle 2010), La vita chiara (Transeuropa 2011), Serie fossile (Crocetti 2015 – premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Gli Scomparsi (Pordenonelegge 2016 – premio Dessì), Il bene morale (Crocetti 2017 – premi Europa e Trivio), Giardino della gioia (Mondadori 2019). Nel 2021 Calandrone pubblica Splendi come vita (Ponte alle Grazie), semifinalista al Premio Strega 2021, nel 2022 pubblica Dove non mi hai portata (Einaudi), finalista al Premio Strega 2023, e nel 2024 Magnifico e tremendo stava l'amore (Einaudi).

 

venerdì 16 luglio 2021

Tra ossessione e desiderio. Passione semplice di Annie Ernaux diventa un film con Danielle Arbid

 


Tutto ha inizio con un'immagine dalla quale non riesco a prendere le distanze. La ritrovo, ammantata di mistero. Resta lì, tra le pieghe dei giornali accartocciati in una parte della stanza che non curo, lontano dalla finestra e dalla luce, affossata tra libri che non leggo da tempo. È l'immagine di una donna avvolta dalla passione di un amore «perso nella storia» e ritrovato all'ombra dei ricordi. La donna potrebbe avere la mia età oppure la tua, potrebbe essere giovane di quelle giovinezze che sfioriscono in fretta e ciò che resta è un guizzo nostalgico negli occhi. La donna, dicevo, è lì, davanti a me. La osservo, mi nutro della sua bellezza intermittente, sfumata dagli anni. Mi nutro dei suoi gesti sapienti sotto la doccia, poi con il rimmel in mano, mentre improvvisa, davanti alo specchio, un'acconciatura per apparire affascinante. Donna senza tempo. Immortale nel momento in cui la passione farà vibrare il suo corpo.


È questa l'immagine che mi porto appresso da quando ho letto Passione semplice di Annie Ernaux (Rizzoli, 1992). Ed è questa l'immagine che non posso dimenticare perché troppe volte, anch'io, «ho misurato il tempo con il mio corpo" scoprendo «di cosa si può essere capaci».


«Sin dal mese di settembre dello scorso anno, non ho fatto nient’altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse e che venisse da me». L'io è contaminato dall'attesa dell'uomo. Non un uomo a caso. Lui ha un nome, ha una famiglia, ha una casa che, di ritorno da ogni viaggio di lavoro, lo accoglie e lo definisce. Lui ha un ruolo nella società esattamente come lei. Esseri determinati agli occhi degli altri. Eppure, tutto ciò svanisce quando avviene l'incontro tra i loro corpi. Lui è reale e fantastico al tempo stesso. Quando non c'è diventa un'ossessione, qualcuno da attendere eternamente e che avrebbe dato significato alla sua stessa esistenza. «Vivevo nella crescente ossessione che qualcosa sopravvenisse a impedire il nostro appuntamento».


La passione è rapimento, carnalità, inconsapevolezza, frammentarietà. La passione si consuma nello spazio di un amplesso, sprofonda nelle sabbie mobili dell'immaginazione (quando ci rivedremo, come sarà il nostro prossimo incontro, come giungere al massimo godimento?) per poi riaccendersi grazie a una telefonata, una lettera, poche parole quanto basta, a lei, per attestare l'esistenza dell'uomo.


Passione semplice diventa un film della regista libanese Danielle Arbid intitolato L'amante russo con Laetitia Dosch e Sergei Polunin. Già selezionato da Cannes 2020, il film di Arbid è stato presentato in anteprima mondiale al festival di San Sebastián, successivamente, il dieci giugno scorso, al Cinema Nuovo Sacher a Roma in occasione di Rendez-Vous Festival del Cinema Francese.


Sarà Danielle Arbid a portare in scena quell'immagine che conservo da tempo, l'immagine di una donna perduta nella sua ossessione. «Ero entrata in uno stato in cui nemmeno la realtà della sua voce poteva rendermi felice. Tutto era mancanza senza fine, tranne il momento in cui stavamo insieme a fare sesso. Eppure, ero ossessionata dal momento che sarebbe seguito, quando se ne sarebbe andato. Vivevo il piacere come un dolore futuro». L'ossessione diventa il metro di misura per dare valore al quotidiano. Non solo. L'ossessione sarà anche la fonte dalla quale abbeverarsi per dare nuovo impulso a un amore senza dimensione.

Sono nata a luglio, il mese che taglia, «luce-lama che abbaglia». Mi è sembrato questo il momento più adatto per tentare di accarezzare l'idea dell'ossessione e dell'amore. Perché luglio, mese dell'abbondanza, mi ricorda quanto il mio essere sia al tempo stesso ossessione e rapimento, discordante connubio tra esterno e interno, tra vulnerabilità e profondità. Continua antinomia dove la lingua, esperienza frastagliata piombata tardi nella mia vita così come molti altri avvenimenti, diventa lo spazio bianco nel quale tratteggiare qualcosa di mio.


Aggiornamento: a novembre del 2021, Annie Ernaux è stata invitata all'Institut français di Napoli in occasione della proiezione del film "L'amante russo" tratto dalla sua opera letteraria Passione semplice

Qui il video della serata:


 






venerdì 9 luglio 2021

L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux (13lab editore)

«Bisognerebbe salutare ogni discorso costruito da una donna. Dico 'salutare' pensando allo sforzo necessario per strapparsi a un godimento afasico, ricettacolo materno, ma anche per tirarsi fuori dalla scia così facile della ripetizione dei sermoni paterni».

Le parole di Julia Kristeva sono un recente regalo (e augurio) da parte di una persona speciale che ha seguito l'inizio di questa avventura, la stesura del mio secondo libro pubblicato il 9 aprile per la casa editrice milanese 13lab (seconda ristampa il 30 aprile).


Richiedi la tua copia in tutte le librerie e sulle piattaforme online:

Il Novecento letterario francese ha portato in scena una scrittura nuova, riflesso di una memoria non più assoggettata a strutture oggettive e soggettive della «domination masculine». Si tratta di una lingua che, per la prima volta, parla alle donne e delle donne, spiega e racconta il sentire e la realtà femminile, si nutre di spazi e tempi propri. Partendo da queste premesse e sulla base delle coincidenze significative (junghiane e non), il libro propone un viaggio alla scoperta dell’affascinante legame tra Colette, Marguerite Duras e Annie Ernaux, tra i testi, gli scritti e le personalità delle tre autrici, che prima di essere tali sono state bambine, adolescenti, amanti e donne. Ognuna ha saputo raccontare se stessa diventando parte di quello stesso racconto. La loro scrittura è l’evento che inaugura l’epoca segnata dall’inclusione, nella letteratura e nella società, del genere e del corpo femminile attraverso le parole, un’epoca che non teme di dare un nome all’indicibile e all’innominabile. Questo viaggio “oltre la carne” racconta di come le tre autrici hanno individuato, nella ricerca autobiografica, la rappresentazione narrativa più autentica della voce femminile. Il libro esplora gli intrecci biografici fra Colette, Marguerite Duras e Annie Ernaux, in un dipanarsi tra letteratura comparata, personali esposizioni aneddotiche, sguardi monografici. Una trattazione a metà strada tra saggistica e narrativa. 

Le recensioni e le interviste al libro sono visionabili alla pagina RASSEGNA STAMPA.


Eventi online e Presentazioni 

L'evento della scrittura su ViaggiLetterari diretta Instagram  martedì 13 aprile ore 21.00 con Giusy Laganà e Federica Funaro. 


L'evento della scrittura presentato tra le novità 2021 della casa editrice in diretta Facebook sabato 17 aprile sulla pagina di LibridaAsporto con Federica Funaro di 13Lab Editore.


L'evento della scrittura su Live Libri in Diretta mercoledì 12 maggio con Giusy Laganà e Mara Lombardo di 13Lab Editore. Qui il link per rivedere la presentazione.


L'evento della scrittura presentato presso il Caffè Letterario della Biblioteca comunale di Terni venerdì 14 maggio con Simonetta Neri, scrittrice e traduttrice.


L'evento della scrittura presentato in diretta sulla  pagina Facebook della libreria Piccoli Labirinti di Parma: Qui il link della diretta: Libreria Piccoli labirinti.


L'evento della scrittura presentato presso la Biblioteca Aldo Fabrizi di Roma venerdì 16 luglio con Gisella Blanco, poetessa e critico.


L'evento della scrittura
presentato presso la Chiesa Castello di San Martino dall'Argine (Mantova) sabato 4 settembre ore 18 con Vanni Buttasi, giornalista della Gazzetta di Parma.


L'evento della scrittura presentato all'interno di Umbria Green Festival mercoledì 8 settembre alle ore 18.00 con Simonetta Neri, traduttrice e scrittrice.


L'evento della scrittura presentato all'interno del programma ReadY mercoledì 13 ottobre alle ore 21.30 da Francesco Campagna (professore e scrittore) e Gisella Blanco (poetessa e critico). Qui il link del canale per vedere la puntata


L'evento della scrittura a BookCity Milano 2021 - Venerdì 19 novembre 2021 La scrittura come ponte per l'inclusione. Confronti fra donne. Con Sara Durantini e Raffaella Musicò, scrittrice e fondatrice della libreria Virginia &Co Monza: Vedi la diretta streaming  


L'evento della scrittura presentato sul canale Instagram de Il lettore medio diretta streaming con Paquito Catanzaro - Mercoledì 26 gennaio 2022


L'evento della scrittura presentato da Anna Lo Piano, scrittrice e giornalista, sabato 9 aprile presso la Libreria La Libroteca di Roma.  



martedì 8 giugno 2021

Hiroshima mon amour. Sguardi sul cinema di Marguerite Duras



«Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza» e continuava percorrendo in lungo e in largo l'aula, un libro sottobraccio, talvolta tra le mani con l'indice a tenere il segno per riprendere la lettura. Mi riferisco al mio incontro con Marcel Proust ma non con il grande narratore che si immerge nel tempo per ritrovarlo prima di perdervisi («non poteva ritrovare il Tempo perché non lo aveva ancora perduto», scriverà George D. Painter), bensì all'incontro con le parole di Marcel Proust attraverso i racconti interpretati dal mio professore di liceo. Era solito condividere aneddoti a latere delle sue lezioni di letteratura. Non si trattava di incisi o parentesi boriose ma di vere e proprie narrazioni che avevano l'effetto di catturare la nostra attenzione molto più di quanto non accadesse con la lezione stessa. E fu attraverso uno di questi aneddoti che conobbi Proust. Una conoscenza che passò dalla parola quale strumento per dipingere quei «dolori (…) atroci, insostituibili che ci portano, per vie sotterranee, alla verità e alla morte». L'io proustiano è un io frammentato, in continuo divenire, che non conosce e non si conosce. Nonostante ciò, è un io alla ricerca dei suoi molti volti, delle sue maschere e delle sue realtà, quelle che vive ogni giorno, mai identiche a se stesse eppure rivelatrici di una qualche verità. È nelle intermittenze della parola che l'io proustiano si ritrova. Alcuni anni dopo, ritroverò quelle stesse intermittenze linguistiche nella scrittura durassiana. 


Quelle intermittenze in cui alla parola viene sottratta parola, quelle intermittenze che creano vuoti e spazi, ampliando i confini di ciò che può essere scritto. Saranno proprio quelle intermittenze e definire la scrittura di Marguerite Duras. Lo vediamo nei suoi libri (dialoghi sincopati, parole lacerate, espedienti narrativi in mise en abyme), lo vediamo anche nella scrittura cinematografica. Negli anni Sessanta, dopo alcune infelici trasposizioni di suoi scritti («…per me, da quell'idiozia, non sono più tornata. Così ho fatto un po' di cinema» sono le parole di Duras in un'intervista degli anni Ottanta riferendosi all'adattamento del 1957 di René Clément del romanzo Una diga sul Pacifico), Marguerite Duras accetterà l'invito di Alain Resnais per la sceneggiatura di Hiroshima mon amour.


Resnais, che in seguito al successo di Nuit et brouillard del 1955, nel quale racconta l'orrore dei campi nazisti, viene nuovamente coinvolto da Anatole Dauman (già produttore di Nuit et brouillard) per un lungometraggio sulla bomba atomica del 6 agosto 1945 su Hiroshima. Per la stesura del soggetto vengono fatti i nomi di tre grandi scrittrici di quel periodo: Simone de Beauvoir, Françoise Sagan (amante del tempo proustiano, dei suoi dolori e delle sue intermittenze) e Marguerite Duras. Sarà proprio quest'ultima ad entrare in relazione profonda con Resnais (lui che già conosceva la sua scrittura tra infanzia, follia e memoria per aver letto Moderato cantabile): in meno di tre mesi la sceneggiatura è pronta.


«Resnais? Un miracolo di purezza. Il piacere di fare del buon cinema. Neanche la minima traccia in lui di commercialità. Non lo ha mai consentito». E ancora: «Il testo è l'equivalente verbale delle immagini, esalta le immagini a seguire. Lui (Resnais, ndr) mi provocava ed io rispondevo assecondandolo». A parlare è lei, Marguerite Duras, la donna che si perde nel tempo dei suoi ricordi per poi tentare di riordinarli. La donna dall'io (proustianamente) frammentato, anche per lei in continuo divenire, che non conosce e non si conosce.


«Il testo non sarebbe stato lo stesso se non avessimo visto le immagini e le immagini non sarebbero state le stesse se non fossero state associate al testo». A queste parole di Dionys Mascolo, nel luglio del 1959, Duras aggiungerà l'elemento «indissociabile delle immagini». Perché Hiroshima mon amour è, prima di tutto, il racconto della memoria e dell'oblio (e chi meglio di Duras poteva parlare dei «dolori atroci e insostituibili» che riemergono dal passato e dai fondali della memoria?) attraverso un montaggio (rotture, collisioni, specifiche inquadrature) inusuale che imprime sulla pellicola il mutamento del tempo e del mondo sconvolto dall'avvenimento della bomba atomica, un mondo che ne esce schizofrenico. Il racconto procede viaggiando sul doppio binario della tragedia personale che i due protagonisti, in tempi e luoghi diversi (Hiroshima da un lato, Nevers dall'altro), hanno provato e vissuto, e la tragedia collettiva riflesso della catastrofe mondiale. La dimensione intima del dolore si intreccia a quella universale.


«Un vero laboratorio» scriverà Dominique Noguez a proposito di Hiroshima mon amour. E proprio in quel laboratorio, ispirato a Faulkner o a Dos Passos attraverso la penna di Marguerite Duras (Eric Rohmer), vi è la traccia, tangibile, del poema e della scrittura lirica della sceneggiatura durassiana che attinge a Louis Aragon e Paul Éluard.


Non solo. Hiroshima mon amour contiene anche elementi narratologici ed espedienti linguistici che saranno propri della produzione durassiana, tra questi l'anonimato dei personaggi. La giovane donna, l'attrice parigina, la francese. L'architetto giapponese, l'uomo. Lei e lui. Spogliati dei loro nomi, privati della soggettività, ai protagonisti non resta che la voce, lo sguardo, il corpo. Trascendendo la singolarità della parola si raggiunge l'universale nel particolare. L'unico momento in cui i personaggi vengono nominati è quando si chiamano con i nomi dei luoghi della loro tragedia (Hiroshima e Nevers).


Hiroshima. C’est ton nom.

C’est mon nom. Oui. …Ton nom à toi est Nevers. Nevers en France.


L'incontro d'amoreevento passionale quanto fugace che sottende il dramma attraversato dall'intera pellicola, si inserisce nel continuo movimento tra ricordi e attualità del contesto storico e politico, tra dolori e follie del passato ed accadimenti del presente. In questa narrazione dove il movimento circolare e concentrico esce dai confini imposti dalla cinematografia classica esplorando nuovi modi di raccontare la storia, osserviamo il viluppo delle parole di Duras con le immagini di Alain Resnais.


«Volevamo fare un film sull'amore. Volevamo dipingere le peggiori condizioni dell'amore, le più riprovevoli, le più inammissibili. La stessa cecità regna a causa della guerra a Nevers e a Hiroshima». 



E ci sono riusciti, andando ben oltre le aspettative. I due autori (perché di due si tratta, Resnais e Duras) riescono a raccontare, ora con l'immagine ora con la parola, della dialettica tra memoria e oblio, del tema del lutto, dell'universalità della tragedia e del dolore personale, facendo, «un film di cui si può dire di tutto» (Eric Rohmer). «E allora cominciamo dicendo che si tratta di letteratura» (Jean-Luc Godard).


martedì 18 maggio 2021

La scrittura del non scritto. Appunti sul cinema di Marguerite Duras

 


«Il y aurait une écriture du non-écrit». Con la frammentazione della scrittura, la parola sperimentata da Marguerite Duras viene racchiusa entro gli argini della solitudine, crivellata dal pallore semantico che più tardi diverrà ricerca estatica di una lingua nuova, riflesso di un sentire mutato nel corpo e nell'anima.


«Fu un amore violento, molto erotico, più forte di me, per la prima volta. Ebbi persino voglia di uccidermi, e questo cambiò il mio modo stesso di fare letteratura: fu come scoprire i vuoti che avevo dentro, e trovare il coraggio di dirli. La donna di Moderato Cantabile e quella di Hiroshima mon amour, ero io: esausta di quella passione che, non potendo raccontare, decisi di scrivere».


L'amore violento di cui parla Duras si consuma con Gérard Jarlot nel 1957. Non è il primo, Gérard. Ma, forse, è colui che per primo si è nutrito, inconsapevolmente, delle mancanze di Duras. La scomparsa della madre, avvenuta proprio nel '57, incide dei solchi nella fragilità di Duras la cui vita, da sempre, rasenta il limite delle esperienze possibili. Marguerite si abbandona a Gérard, a quell'amore foriero di vuoti e silenzi, quell'amore affamato e mai sazio. Marguerite si abbandona a quel desiderio luminoso e al tempo stesso inafferrabile perché la sua luce è una rivelazione appena percepita, colta nel momento dell'esplosione e poi sottratta senza possibilità di essere gustata e vissuta nella sua pienezza. Quell'amore tormentato per Jarlot, che ritroveremo anche nell'ultima Duras con Yann Andréa, è alla base della spinta verso la parola svuotata, scarnificata, prosciugata. Si tratta della parola cinematografica che si legge nell'abbandono del suono e dell'immagine, nel passaggio dal «profondeur du mal à la profondeur du bleu».


In quella che Laura Graziano definisce la «sintassi della sottrazione», rintracciamo la potenza della rappresentazione filmica di Marguerite Duras.


Già da tempo il teatro offre a Duras il palcoscenico perfetto per la sperimentazione linguistica in nome di una scrittura libera dai classici vincoli narrativi. Tuttavia, è con il cinema, a partire dagli anni Cinquanta, che Marguerite Duras indaga una nuova forma di linguaggio.


Se con Hiroshima mon amour (film di Alain Resnais, sceneggiatura e soggetto di Duras del 1959), Une aussi longue absence (film di Henri Colpi, sceneggiatura e dialoghi scritti dalla stessa Duras insieme all'amante Gérard Jarlot nel 1961) Duras protende verso il cinema, sarà con la direzione dei film Détruire, dit-elle (1969), La Femme du Gange (1974), India Song (1975) e Agatha (1981) che Duras circoscriverà la geografia dell'assenza: diafana sarà la parola che lascia intravedere, talvolta solo apparentemente, ciò che sta dietro.

La trasposizione cinematografica del testo durassiano gioca sui vuoti narrativi già rintracciabili in Moderato cantabile. Portato sul grande schermo nel 1961 da Peter Brook, il romanzo presenta quegli slanci emotivi frutto di una profonda riflessione sul rapporto tra dialoghi e narrazione, tra presenze e assenze, tra esposizione e interiorizzazione.


Attraverso l'occhio della macchina da presa, la traduzione del testo durassiano sullo scherzo non farà altro che uccidere un tipo di cinema che Duras stessa definisce solo «vanità e inseguimento del vento», creato appositamente per gli «spettatori ordinari». Il disprezzo di Duras per la trasposizione filmica di alcuni suoi scritti è conosciuto e lei non tenta di nasconderlo. Assumere le vesti di regista, lei che non aveva alcuna formazione come cineasta, diventa l'unico modo per fare «un altro cinema», diventa il gesto di affronto a un tipo di cinematografia che risponde a grette regole di mercato e che si rivolge a quelli che Duras considera gli «spettatori al chilogrammo».


Dopo gli anni dell'amore distruttivo con Gérard Jarlot, Duras è totalmente travolta dal legame che si instaura con la macchina da presa. È qui che la comunicazione si dissolve: bagliori metasemantici dislocati in un quadro dove tracce linguistiche e psicologiche sono concatenate tra loro da una scrittura immanente, incontrollabile e voluttuosa. Il movimento di Duras è dentro al cinema forte è la compenetrazione tra testo e immagine, scrittura e voce.  Altrettanto forte sarà il legame emotivo con i luoghi di estasi creativa, come la casa di Neauphle-le-Château, dove l'altrove della lingua trova corrispondenza nell'immaginazione. Si parla, a tal proposito, di "cinema assoluto", dove il lettore-spettatore è chiamato a sostituire ciò che non vede con ciò che immagina.


La scrittura cinematografica di Duras si sviluppa nel taglio delle scene, nei primi piani, nelle inquadrature, nella profondità di campo e nel ritmo lento. Continuamente rinnovata e interrogata, la scrittura di Duras per il cinema affonda nell'esperienza vissuta da qui la parola assurge ora a immagine ora a suono in un continuo rapporto dialettico.


La scenografia del desiderio, la metafora della fotografia, l'onnipresenza dello sguardo e del mare sono elementi della cinematografia durassiana riportati di recente sullo schermo da Benoît Jacquot (che proprio con Duras ha mosso i primi passi dietro la macchina da presa). È grazie a lui che riprende vita Suzanna Andler, film tratto dall'omonimo romanzo di Marguerite Duras del 1975, con Charlotte Gainsbourg nei panni di Suzanna.


Benoît Jacquot deve molto a Duras. Lo dice ricordando i loro primi incontri negli anni Settanta, quando Duras era già un'icona mentre lui un ventenne che sognava di fare cinema. Lo dice, Benoît Jacquot, tra la commozione dei ricordi e la sincerità che unisce chi ha saputo guardare Marguerite Duras oltre la sua stessa caricatura.


Con Suzanna Andler, Benoît Jacquot non riporta sullo schermo solo il racconto di una donna ma vi traspone anche la storia di un luogo muovendo dalle "acque oceaniche di Duras". Tra le pieghe della sofferenza durassiana dell'ignoto, filtrano quei dolori narrati anche in Hiroshima mon amour, riflessi di racconti collettivi prima ancora che privati (a tal proposito, Godard, nel '59, dirà, in seguito alla proiezione di questo film: «Quel che subito colpisce è che non sembra avere nessun riferimento cinematografico. Possiamo dire che Hiroshima è Faulkner più Stravinskij, ma non possiamo dire che è questo più quel cineasta»). In Hiroshima si tratta di una tragedia silente, corroborata dalle variazioni musicali di Giovanni Fusco, che insiste nella frammentazione della parola e che proprio in tale frammentazione si riconosce, quella tragedia permeata da una sofferenza che non è del singolo ma diventa universale come il dolore interpretato da Gainsbourg in Suzanna Andler che si stratifica sulle menzogne e sui non-detti trasformando la sua storia personale in una storia, come insegna Duras, «che passa attraverso la sua assenza» trascendendo la parola e realizzandosi proprio sui vuoti generati dalla scrittura perché scrivere (un libro, una sceneggiatura) è anche questo, è «non parlare. Tacere. Urlare silenziosamente».