giovedì 31 marzo 2016

Gli anni: l'autobiografia impersonale di Annie Ernaux

C'è qualcosa nella scrittura di questa donna che tocca delle corde profondissime, un substrato che credevo di aver rimosso, di aver sepolto e, invece, ecco che emerge, granitico, imponente. E' come affondare in un abisso profondo, nessuna possibilità di riemergere se non dopo aver visto, o rivisto, il fondo. E così, anche questa lettura di Annie Ernaux, Gli anni, traduzione sempre della piccola casa editrice romana, mi riporta con forza, con quanta violenza, a quel rimosso. 

Vorrei provare a dire qualcosa di questo libro senza che il rimosso laceri le mie parole prima ancora che possano arrivare su questo foglio digitale. Ci provo, non garantisco. Per farlo cerco di partire da una frase di Ernaux a proposito della stesura del libro Gli anni. Ebbene, lei dice di averlo iniziato nel 1985 scrivendo l'incipit  «e poi ho descritto alcune scene come la donna accovacciata che urina, l'uomo che passa sul marciapiede e altre piccole scene. Ho rinunciato, poi ho scattato alcune foto che ho descritto. Poi sono tornata all'idea che tutte le parole scompariranno. In fondo è immaginare che un giorno la mia esistenza, tutta l'esistenza scompaia e noi non saremo altro che un nome perso in una generazione lontana. Quindi queste sequenze spiegano il motivo del libro: voglio tornare indietro nel tempo, cioè farlo iniziare negli anni '40. Senza che io lo sapessi, con queste enumerazioni di immagini, espressioni, parole, ho comunicato il contenuto e il metodo del libro: viaggiare indietro nel tempo grazie ai ricordi». 

Annie Ernaux racconta la sua storia e insieme la storia di intere generazioni, di chi l'ha preceduta e di chi è venuto dopo di lei. La narrazione è spontanea, una purezza che segue il flusso dei ricordi e in questo continuo rimembrare si assume la responsabilità delle immagini che sceglierà di salvare dall'oblio. «Non si tratta solo di salvare la mia esistenza, si tratta di salvare il tempo in cui eravamo tutti, è l'idea della scrittura che salva».



Questa idea la capisco, la comprendo. È la stessa idea che mi ha trasmesso la mia insegnante di letteratura francese ed è anche quella che, negli anni a venire, ho sentito con forza mentre scrivevo cercando di salvare i ricordi.  

Rammento le parole di Virginia Woolf a proposito dei ricordi, il fardello che il passato le ha lasciato in eredità. È attraverso la scrittura che veniamo al mondo e con noi la nostra memoria, ciò che siamo stati e l'ambiente che ci ha consegnato al mondo. Annie Ernaux spiega questo momento con grande lucidità, riferendosi a ciò che accade al bambino che vive la prima fase della sua vita all'interno della cerchia familiare. «Il mondo dell'infante, quello dal quale ognuno di noi proviene, è quello che ti allena, principalmente, attraverso il corpo». Quello che accade nei primi anni della vita del bambino, le emozioni, le sensazioni, tutto ciò che andrà a formare la sua persona «resta molto radicato, sepolto. La scrittura riporta al mondo questa prima relazione». 


Qualcosa di simile viene teorizzato anche da Pierre Bourdieu, a cui Ernaux si rifa spesso: «Il mondo natale è infatti soprattutto il mondo materno» e aggiunge «è senza dubbio nel cibo che troveremo il segno più forte e il più inalterabile del primitivo apprendimento, quello dei sapori primordiali e dei cibi originali». 

«Come socializziamo quando arriviamo nel mondo? Come si apprende ciò che è accaduto prima della nostra nascita? Mi sono tornate in mente le tavole festive, quelle domenicali e ho notato l'interminabile lentezza dei pasti festivi… Il pasto festivo come momento privilegiato in cui il bambino si ritrova nel mondo della famiglia e nella storia. Questa è l'immagine che mi è venuta, con la sensazione del cibo sui tavoli, ma anche l'atmosfera, le canzoni (in passato si cantava molto a fine pasto) e le conversazioni. È stato attraverso le conversazioni a tavola che la storia dei miei genitori e dei miei nonni mi è stata trasmessa. La tavola è un luogo di trasmissione della memoria storica, della memoria familiare con persone che non conoscevamo, che sono morte, questo ricordo vago e lontano di persone che non conosceremo mai ma che sono parte della famiglia. Allo stesso tempo, poiché le due memorie vanno di pari passo, accediamo al mondo sociale a cui non sappiamo ancora di appartenere, nel mio caso era il mondo contadino. Nel pasto, la lingua, uno stile di vita e un ricordo, è tutto ciò che accade al bambino». 


«Ne Gli anni, il primo pasto di festa è molto lungo perché spiego tutti gli aspetti del venire al mondo. Riceviamo il nostro posto nel mondo, cioè in una famiglia, in uno spazio sociale, in un'epoca». I pasti in famiglia assumono una forma eucaristica diventando momenti vissuti in memoria di una o più persone che non fanno più parte del clan famigliare. La memoria rivive e passa attraverso le parole elargite durante quei pasti e che restituiscono, ai presenti così come agli assenti, il loro posto all'interno del nucleo. 


Abdicando all'io, Ernaux ci consegna un quadro privato della vita sua famigliare nel quale individuo le mie origini contadine, tracce di un passato appartenente a un altro tempo quando il vino inondava la tavola delle feste e a fine pasto il fumo delle sigarette aleggiava per tutta la cucina. Una sola portata, il più delle volte selvaggina cacciata da mio nonno e sbattuta orgogliosamente sul piano di legno ancora sanguinante, mia nonna pronta a pulire, spennare e cuocere per un'intera giornata prima di servire fumante per il pranzo della domenica. 

Gli Anni è un romanzo autobiografico e nel contempo un racconto della storia delle generazioni dal dopoguerra ai primi anni duemila. La narrazione è spontanea, segue il flusso dei ricordi e in questo continuo rimembrare Annie si assume la responsabilità delle immagini che sceglierà di salvare dall'oblio. 


A partire dalle immagini del suo passato, Annie cerca di trasformare in «scrittura la sua futura assenza, realizzare quel libro -migliaia di appunti ancora allo stato di abbozzo- che da più di vent'anni raddoppia la sua esistenza e che ha dovuto coprire via via un arco temporale sempre più lungo». La genesi de Gli Anni si trova in questi appunti iniziati prima di scoprire il cancro al seno e interrotti per superare la malattia e pubblicare L’usage de la photo. 

Gli Anni è un fluire di immagini evocate dalla memoria che assumerà la forma letteraria che oggi possiamo leggere, «una sorta di autobiografia impersonale (…) come se anche lei, a sua volta, svolgesse il racconto dei tempi andati» .

sabato 20 febbraio 2016

Annie Ernaux: sulla letteratura e scrittura (femminile)

Ancora su Annie Ernaux, sul suo fare letteratura e scrittura (femminile). Qui in dialogo con Frédéric-Yves Jeannet, L'écriture comme un couteau. 



Nel leggere questo estratto della loro conversazione, che qui riporto in italiano, mi sono tornate in mente le parole di Hélène Cixous: “Bisogna che la donna scriva se stessa: che la donna scriva della donna e che avvicini le donne alla scrittura, da cui sono state allontanate con la stessa violenza con la quale sono state allontanate dal loro corpo; per gli stessi motivi, dalla stessa legge e con lo stesso scopo mortale. La donna deve mettersi nel testo – come nel mondo e nella storia – di sua iniziativa”.


Ecco l'estratto. Qui per leggere qualcosa in più su questo libro-intervista  e qui, invece, per leggere qualcosa in più su Annie Ernaux e il suo libro Il Posto


Ho una storia di donna

La parola « donna » compare in due dei suoi titoli, riguardanti libri molto diversi. Nathalie Sarraute mi aveva scritto un giorno, dispiaciuta che fosse nell'ambito di un congresso sull'« écriture féminine » (scrittura femminile) che le avessi dedicato una comunicazione, poiché si definiva come scrittrice nel senso ampio del termine, e in questo senso asessuata. Da parte sua, si considera prima di tutto una scrittrice donna (« écrivaine », dicono più giustamente i Québécois), oppure desidera essere « uno scrittore » al neutro?

Non più di Nathalie Sarraute amo comparire nella rubrica « scrittura femminile ». Non esiste una divisione della letteratura intitolata « scrittura maschile », cioè legata al sesso biologico o al genere maschile. Parlare di scrittura femminile significa di fatto fare della differenza sessuale – e solo per le donne – una determinazione importante sia della creazione che della ricezione: una letteratura di donne per le donne. Una letteratura così esiste, fiorisce nei magazine femminili, nei romanzi della collana Harlequin (non sempre scritti da donne, tra l’altro!), e si nutre di stereotipi. Il suo corrispettivo maschile, anche se non viene chiamato « letteratura maschile », potrebbe essere SAS e un certo tipo di romanzi polizieschi seriali e di spionaggio. Detto ciò, sono convinta che siamo il prodotto della nostra storia e che questa sia presente nella scrittura. Quindi contano il romanzo familiare, l’ambiente di origine, le influenze culturali e, ovviamente, la condizione legata al sesso. Io ho una storia di donna: per quale miracolo dovrebbe svanire davanti al mio tavolo da lavoro, lasciando solo uno scrittore puro (concetto strano, tra l’altro, perché credo piuttosto che siano forze molto oscure e complesse quelle che agiscono nello scrivere)? Quando ho letto recentemente le lettere che Michel Butor e lei avete scambiato per undici anni, ho provato la sensazione – che le ho riferito – di leggere una corrispondenza di scrittori uomini. A causa di un modo maschile, difficile da definire, di vivere e praticare la scrittura che traspare in quelle lettere. Qualcosa che appartiene all’assenza di peso. Lei è dentro un’altra storia rispetto alle donne che scrivono.

La mia storia di donna non la porto consapevolmente dentro di me, se non quando diventa oggetto di ricerca, come in La donna gelata e L’evento. L’intenzionalità di quest’ultimo testo è presente nel titolo: ben più che lasciare una testimonianza, si tratta di dispiegare un’esperienza irriducibilmente femminile, l’aborto, e di conferirle tutta la sua dimensione temporale, sociale, sacra, il suo aspetto iniziatico. Renderla anche un’esperienza di memoria e di scrittura: circa un terzo del testo è dedicato al lavoro della memoria, alla sua relazione con la scrittura. Fare in modo che un fatto femminile, l’aborto, non appartenga più alla sfera dell’indegnità. Non è certo che io ci sia riuscita! Ma il disagio provocato da questo libro è stato comunque il segno di un disturbo.

 

È sempre un buon segno! Da parte mia – è curioso, e ne prendo coscienza proprio ora –, ho accolto questo testo non come il racconto di un’esperienza « irriducibilmente femminile », ma come quello di una storia propriamente umana, e in questo senso assimilabile al mio vissuto, anche se non ho un corpo di donna e quindi non posso sapere, se non indirettamente, attraverso il racconto che ne viene fatto, ciò che prova fisiologicamente una donna nell’amore, nella malattia, nella gravidanza, ecc. Ho quindi letto il suo libro come l’esplorazione di un’esperienza universale – intendo dire trasponibile, generalizzabile, come può esserlo anche l’evocazione di un luogo e di un’epoca straniera, ad esempio in Senofonte o in Yourcenar, nei quali tuttavia mi ritrovo in un terreno familiare. Non ho provato il minimo « disagio », né la minima sensazione di esclusione o di intrusione nell’entrare così nell’« intimità » di una donna. Ciò è dovuto forse anche in parte al fatto che si tratta di un’esperienza di scrittura, di memoria, presentata come tale, con tutta la ricerca « archeologica » sottostante, o meglio parallela, e l’esercizio di ricostruzione di un’epoca ancora vicina, ma già molto diversa dalla nostra: gli anni Sessanta. Quale ruolo ha avuto il femminismo – esperienza senza equivalente maschile – nella sua vita?

Il femminismo non ha avuto per me inizialmente una parola, ma un corpo, una voce, un discorso, un modo di vivere, fin dalla mia nascita: quelli di mia madre. Ho raccontato tutto questo in La donna gelata: la libertà di leggere quanto e tutto ciò che volevo, l’assenza totale dei cosiddetti lavori femminili, l’ignoranza della sartoria, della cucina, ecc., la valorizzazione degli studi e dell’indipendenza materiale per una donna. Violenza di mia madre, dolcezza di mio padre: gli stereotipi maschile-femminile venivano messi a dura prova nella mia esperienza del mondo. Ma essi erano più forti, come ho scoperto non appena ho cominciato a uscire con dei ragazzi, quando ho incontrato quello che per me era « il continente nero », per riprendere la formula di Freud – non ho avuto fratelli –, e posso dire con forza che il cumulo dell’origine sociale dominata e della condizione riservata alle ragazze è stato pesante: ho sfiorato il disastro.

E ho incontrato Beauvoir, voglio dire non realmente, perché non l’ho mai vista e non le ho mai parlato, abbiamo solo scambiato due lettere all’uscita dei miei primi libri, ma l’ho incontrata ne Il secondo sesso, a diciotto anni. Ricordo questa esperienza di lettura, in un piovoso mese di aprile, come una rivelazione. Tutto ciò che avevo vissuto negli anni precedenti nell’opacità, nella sofferenza, nel malessere, si schiariva improvvisamente. Da lì mi deriva, credo, la certezza che la presa di coscienza, anche se non risolve nulla di per sé, è il primo passo verso la liberazione, verso l’azione. (Una delle frasi di Proust che mi torna spesso è « là dove la vita mura, l’intelligenza apre una via d’uscita. »)

Ho recentemente misurato l’influenza di questo libro di Beauvoir. Sfogliandolo, mentre non lo leggevo più dai tempi del liceo, mi sono imbattuta in un passaggio in cui è scritto: « le lesbiche scelgono la facilità. » Eppure, ho scritto testualmente questa frase – di cui ora riconosco la falsità – nel mio diario del 1989, senza immaginare nemmeno per un istante che mi provenisse da Beauvoir e da una lettura vecchia di trent’anni.

In un certo senso, il modello materno e il testo di Beauvoir si sono incontrati, radicando in me un femminismo vivo, che direi nemmeno si concettualizzava, e che è stato rafforzato dalle condizioni in cui ho abortito clandestinamente. La mia tesi di laurea, nel 1964, riguardava la donna nel Surrealismo e come testi di studio aggiuntivi, ho scelto Una vita di Maupassant (la vita di Jeanne Lamare, la più grande desolazione possibile) e Le onde di Virginia Woolf, che amavo e ammiravo profondamente. Uno dei miei progetti di scrittura, nell’estate del 1966, era descrivere « un’esistenza di donna » (una cosa che avevo dimenticato e che ho ritrovato di recente nel mio diario).

Come ho già detto, è stato spontaneamente che ho militato all'interno dell'associazione Choisir, poi nel MLAC, dal 1972 al 1975, ma, vivendo in provincia, lontano da Parigi, e rifiutando il discorso femminista essenzialista, sono rimasta ai margini di gruppi come il MLF. Non mi sono riconosciuta affatto nel pamphlet di Annie Leclerc, Parole de femme, né, più in generale, in un certo lirismo letterario che esalta il femminile e che mi sembra il corrispettivo del populismo, celebrando il popolo.

Mi rendo conto che mi sto dilungando su questo argomento e avrei ancora moltissimo da dire. Ad esempio, che il linguaggio concreto, fattuale, «le parole come cose», una certa violenza della mia scrittura – le cui radici affondano nel mondo sociale dominato – si collocano in linea con il femminismo. Così, Passion simple potrebbe essere considerato un antiromanzo sentimentale. In un certo senso, ora, la combinazione delle due situazioni – transfuga sociale e donna – mi conferisce forza, intraprendenza, direi, di fronte a una società, a una critica letteraria che continua a «sorvegliare» ciò che le donne fanno e scrivono.

Notate che si continua ancora oggi a designare le scrittrici per il loro sesso e a raggrupparle: «le donne, oggi, osano scrivere il sesso», «sono più numerose a scrivere rispetto agli uomini» – il che è falso –, ecc. Non si legge, non si sente dire: «gli uomini, oggi, pubblicano libri in questo o quel modo» o «gli uomini hanno vinto tutti i grandi premi d’autunno» (il che accade). C’è, all’interno del campo letterario, come altrove, una lotta dei sessi e vedo la promozione di una «scrittura femminile» o dell’audacia della scrittura delle donne come l’ennesima strategia inconscia degli uomini per fronteggiare l’ingresso, in numero maggiore, delle donne nella letteratura, con l’obiettivo di tenerle fuori e restare i detentori della «letteratura», senza aggettivi.


Il « disagio » che provano alcuni uomini nel leggervi, fa parte integrante del vostro progetto? Intendo dire: cercate di provocare questo disagio, oppure, al contrario, vi disturba? Si tratta per voi, esercitando la vostra libertà di espressione, anche in modo erotico (ma il più delle volte in modo clinico), di parlare degli uomini come loro parlano delle donne, per far evolvere le mentalità?

Non vedo da cosa derivi il disagio che evocate. Se esiste, non cerco di provocarlo, semplicemente perché non scrivo pensando agli uomini o alle donne, ma alla «cosa» che voglio cogliere attraverso la scrittura. Detto questo, questo turbamento non sarebbe sorprendente, nella misura in cui siamo tutti immersi in schemi di pensiero, immaginari culturalmente e storicamente costruiti, che attribuiscono agli uomini e alle donne ruoli e linguaggi differenti. Anche se non cerco di suscitare questa reazione, non mi dispiace, è segno di un disturbo che, a mio avviso, è necessario: da quanti secoli le donne trovano legittime le rappresentazioni che una letteratura prevalentemente maschile dà degli uomini, delle donne, del mondo?

Ora tocca agli uomini fare lo sforzo di accettare le rappresentazioni di una letteratura scritta dalle donne come altrettanto «universali» quanto le loro, e sarà inevitabilmente un processo lungo... Perché molti romanzi maschili attualmente trasmettono sulle donne non più stereotipi ormai troppo evidenti, ma un’affermazione tranquilla del potere e della libertà degli uomini, della loro capacità di esprimere, e solo loro, l’universale. Le forme più ostentate di questo fallocentrismo – penso a Michel Houellebecq – non sono necessariamente le peggiori; ce ne sono di molto più accattivanti, che passano inosservate, perché si fondono nelle modalità più radicate e resistenti di pensare e sentire degli individui, comprese le donne.

È così che alcune lettrici si dichiarano infastidite dall’«impudicizia» o dalla «mancanza di emozione» nei miei libri, critiche che non penserebbero mai di rivolgere ai testi degli uomini.