giovedì 10 agosto 2023

Lol V. Stein. Tutte le donne di Marguerite Duras


L'occhio di Marguerite Duras si muove come la macchina da presa. L'obiettivo si ferma sul casinò di T. Beach. Interno. Sala da ballo. L'orchestra smette di suonare, la pista si svuota. Due donne l'attraversano. "Alte tutt'e due, costruite allo stesso modo". Lol V. Stein accompagnata dal fidanzato Michael Richardson verso il bar, in fondo alla sala da ballo, guarda la più anziana delle due donne farsi avanti con quella "grazia abbandonata, flessuosa, da uccello morto". Anne-Marie Stretter è il suo nome.



Ora l'obiettivo inquadra Michael Richardson, il suo volto "prosciugato nella pienezza dell'età matura: dolore (...) antico, della prima età". È in quel momento che inizia la nuova storia di Michael Richardson, mentre si allontana da Lol V. Stein, mentre accompagna Anne-Marie Stretter al centro della pista per un ballo. L'ultimo. Prima di scomparire insieme a lei nel chiarore dell'alba.

 

Adesso la macchina da presa riprende il rapimento di Lol V. Stein. Un corpo emaciato che si lascia andare alla follia dell'abbandono, alla mancanza. Accanto a lei, solamente una persona: l'amica d'infanzia Tatiana Karl. Non sarà Michael Richardson a mancarle bensì qualcosa che lei stessa riusciva a trarre dalla loro relazione. Una forza? Una ragione d'essere, d'esistere?


L'inquadratura si sposta nel tempo e nello spazio. U. Bridge è la cittadina dove Lol V. Stein diventa una nuova donna. Si sposa, ha tre figlie. Riorganizza la sua vita allo stesso modo di come gestisce la sua casa. Ma il destino la riporta a S.Thala, il luogo del rapimento, della sua perdizione.


La macchina da presa segue Lol mentre vaga senza meta per la città che non somiglia più a quella della sua giovinezza. È durante questi vagabondaggi che Lol incontra Tatiana Karl, l’amica d’infanzia, e scopre la sua doppia vita con l’amante Jacques Holt.

 

Cosa accade a Lol V. Stein quando viene a conoscenza della relazione clandestina tra Tatiana Karl e Jacques Holt? Quale antico dolore si ridesta nella sua anima già ferita? Dieci anni dopo il suo “rapimento”, si ricompone una triade amorosa dove proprio Lol V. Stein è il fulcro, la struttura portante che può mettere fine alla storia stessa.


Chiuso il libro, resta solamente una domanda. Chi è Lol V. Stein? Chi è questa giovane donna che ritorna qualche anno dopo ne L’amore? Chi è questa ragazza la cui identità sembra fondersi con Hélène Lagonelle ne L’amante? Chi è costei che stupisce per la sua imprudenza nel volersi esporre all’amore, un amore mai appagato, una passione mai pienamente realizzata e goduta?


"Ancora oggi sono incapace di dirvi come ho scritto Agatha, Il rapimento di Lol V. Stein, Il viceconsole, Hiroshima… Mi trovo nell’impossibilità totale di dirvi come questo sia stato fatto, come ciò sia accaduto. Ma quando li rileggo sono stupita, mi dico: ‘Cosa mi è successo?’ Non capisco bene. È così, scrivere. Bisogna dirlo molto semplicemente. Non si è completamente responsabili di ciò che si scrive". Nell'aprile del 1981 Marguerite Duras si raccontò a Suzanne Lamy e André Roy che poi curarono e diedero alle stampe il libro Marguerite Duras a Montréal.



Anni dopo, Duras scriverà: “Tutte le donne dei miei libri, qualunque sia la loro età, derivano da Lol V. Stein. Da un certo oblio di sé. Hanno tutte gli occhi chiari. Tutte sono imprudenti, incaute. E tutte sono causa della loro infelicità”.

giovedì 3 agosto 2023

Anniversari e ricorrenze letterarie. Ritratto di Colette

In occasione dell'anniversario della scomparsa di Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28 gennaio 1873 - Parigi, 3 agosto 1954), pubblico alcune pagine a lei dedicate e inserite nel mio libro L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux (13lab Editore, Milano 2021). 



Abbagliati dalla luce delle sfere di vetro policrome, risaliamo i gradini che portano all'ingresso del Métro Palais Royal-Musée du Louvre. La sinfonia cromatica del Chiosco dei Nottambuli, opera realizzata e completata nel 2000 da Jean-Michel Othoniel per festeggiare il centenario della metropolitana parigina, accompagna lo sguardo su Place Colette. Tra la solennità storica del Palais Royal e dell'Hotel du Louvre si inseriscono nuovi livelli di esperienza cittadina: storiche caffetterie poi diventate ristoranti, luoghi d'incontro per artisti e intellettuali, flâneurs postmoderni che vivono lo spazio pubblico parigino come dimensione individuale animati da uno spirito indipendente e distaccati dalla massa.

All'interno del perimetro di Place Colette non è difficile immaginare, per qualche istante, quel brulicare incessante che caratterizzava Parigi sul finire del XIX secolo, quando i riflettori si accendevano sulla Tour Eiffel durante l'Expo francese del 1889, che anticipava solo di qualche anno la successiva Exposition Universelle del 1900, di gran lunga la più sfavillante e sfarzosa di tutti i tempi. Allora, la gloriosa Parigi, metropoli di grandi investimenti architettonici e culturali, fungeva da catalizzatrice per artisti e viveurs provenienti da tutto il mondo. Erano gli anni ruggenti: l'Europa stava mutando a ritmi incalzanti e il vecchio continente sembrava ruotare attorno alla città per eccellenza "dove si balla e si gode". La musica riprodotta dai primi fonografi risuonava per le vie e all'interno dei cafés, delle brasserie, dei bistrot in un gorgogliare di voci, risate, scalpiccii, abbracci.

I decenni a cavallo tra i due secoli vedevano gli spazi pubblici parigini divenire spazi di sosta: la meditazione passava dall'interno all'esterno dell'individuo seduto su una sedia con un bicchiere di assenzio in mano. Questo paesaggio urbano di inizio Novecento sembra disvelare il segreto di Parigi narrato da Balthus: la Ville Lumière rinnovata e riqualificata è l’unione, architettonica e sociale, di villaggi (gli arrondissements) e boulevards metropolitani fino agli anni ’50, quando lo straniamento d’oltreoceano invade quella che si credeva essere l’imperturbabile capitale.

Assistiamo a questi mutamenti frenetici e roboanti attraverso gli occhi di Colette. Stesa su quella che lei stessa chiama la zattera, il divano-letto che all’occorrenza veniva spostato verso l’unica finestra della sua camera nell’appartamento dove ha trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita al Palais-Royal, Colette osserva il passeggio parigino. Come un flâneur d’altri tempi, dall’alto della sua camera da letto, il suo sguardo si posa sulla piazza gremita, la stessa che nel 1966 per volere della sua unica figlia verrà nominata Place Colette. Maestosa nella sua austerità, riecheggiante dell’onnipotenza del Cardinale Richelieu, la piazza è il palcoscenico di una teatralità ormai dimentica dei fasti della gloriosa belle époque, nel proscenio si lavano rigagnoli di sangue della Seconda guerra mondiale. Il tempo sta subendo un’ulteriore accelerazione, Colette ne è spettatrice passiva. Costretta in una stanza dal clima afoso per proteggere le ossa dall’artrite, le pareti illuminate dalla luce di un paralume ceruleo, Colette scrive il suo ultimo libro, Le fanal bleu, circondata da ninnoli venati da seducente malinconia. Significativi sono gli incontri narrati e non gli accadimenti. Le persone e non le cose. Il suo attaccamento passionale e a tratti morboso per l’umana compagnia la porta ad essere sempre in ascolto, sempre in osservazione, soggetto e oggetto al tempo stesso di scoperta ed esplorazione.

Donna di lettere e di cultura, figura centrale anche negli ultimi anni della sua vita, Colette non smette di osservare il mondo, trafitta dall’inesorabile scorrere del tempo. Lo accoglie, allo stesso modo di come accoglie i visitatori che accompagneranno il periodo conclusivo della sua esistenza.

Alla luce del paralume, affacciata alla finestra della sua camera, Colette ripercorre la sua vita non con nostalgia ma con dinamismo, come suggeriscono le ultime righe de Le fanal bleu. Incontri e storie che vengono a galla, momenti che si intrecciano tra loro costituendo la più autentica delle mappature autobiografiche che uno scrittore possa fare di se stesso, esprimendo con grande forza e vigore il ruolo della scrittura quale depositaria della memoria, talismano per superare gli anni.

Alla vigilia del suo ottantunesimo compleanno Colette ha quasi smesso di scrivere, le poche righe che riesce a mettere su carta sono quasi indecifrabili. Resta in silenzio per periodi sempre più lunghi, sta perdendo la memoria. I dolori uniti alla sordità creano un alone di isolamento e solitudine attorno a lei dal quale riesce, talvolta, a riemergere grazie alle cure e alle attenzioni di Maurice. In uno degli ultimi messaggi che ha registrato per il pubblico in seguito all’uscita del film Il grano in erba, a gennaio del 1954, tratto dal suo omonimo romanzo per la regia di Claude Autant-Lara, Colette lascia trasparire, ancora una volta, la sua forza e il suo attaccamento alla vita: “In tutta la mia esistenza ho studiato la fioritura più che ogni altra manifestazione di vita. È qui per me che sta il dramma più essenziale, non nella morte, che non è altro che una banale sconfitta”.

La fioritura ci riporta al giardino della sua infanzia nel piccolo borgo del comune di Yonne, Saint-Sauveur in Puisaye. Nell’immagine della fioritura è da ravvisare l’origine di quello che la stessa Colette chiama il suo alfabeto narrativo, all’ombra della madre Sido. È dal giardino di Saint-Sauveur in Puisaye e dalle mani operose di Sido che dobbiamo cominciare. 

Che strana creatura Sido! Emancipata prima che il termine stesso diventasse un vocabolo tra l’alta borghesia parigina. Artefice inconsapevole della parola magnificata della figlia, Sido è colei che trova il modo di vivere “il suo tempo migliore d’indipendenza prima che i più mattinieri avessero aperto le persiane”. Selvatica trasformista, crudele e al tempo stesso orgogliosa della sua crudeltà, Sido declassa il matrimonio, proprio lei che ha assaggiato ben due esperienze coniugali a dir poco contrastanti tra loro. Solenne e austera, nella sua statuaria imponenza ammiriamo Sido, incarnazione della Madre, mentre si erge regina del regno vegetale, tra fiori vermigli, boccioli dai petali magenta, evanescenze porpora e corallo, stretta nel ritratto paesaggistico impressionista dell’opulenta e corposa Borgogna.

Perché è tra la natura che Sido trova la sua collocazione identitaria. Spogliata dalle necessità e dagli obblighi dei lavori domestici, Sido recupera il suo equilibrio nel giardino. È proprio lì che Sido “entra”, abbandonando le mura domestiche e la loro sdolcinata friabilità famigliare, per vestire gli abiti dimessi da lavoratore incallito e affondare le mani grevi nella terra gelata. Nel suo regno Sido ritrova se stessa, si sente a suo agio. Mentre svanisce ogni preoccupazione, Sido si prende cura delle sue rose, le guarda negli occhi sollevandole in quello strano modo che Colette definisce “par le menton pour les regarder en plein visage”.

Le mani della Madre, callose, ruvide, possenti, scavano dei solchi nella carne di Colette, figlia e bambina, per tracciare la linea di demarcazione tra lei e la genitrice, come il giardino delimita l’esistenza di Sido. E se all’interno del giardino non è possibile entrare se non autorizzati dalla Madre, allo stesso modo il raggio d’azione di Colette è circoscritto dalle volontà della stessa Sido. 

Si dipana un’atmosfera meravigliosamente eccitante, dove la maniacale attenzione ai movimenti del corpo della Madre diventano per Colette la ricerca, incessante e frustrante, del contatto con il mondo materno. Un contatto che non trova accoglienza, un grido che non viene ascoltato.

Nell’animo di Sido è racchiusa la dicotomia umana tra etica e desiderio, tra sentimento e indifferenza: la sovrana del regno vegetale apre la sua casa ai gatti randagi, ai vagabondi e alle serve incinte ma è anche colei che vive senza amore e senza pecca “curando scialle e mortaio con mani sentimentali”.