lunedì 23 maggio 2022

Donne in viaggio alla Cascata delle Marmore. Le viaggiatrici raccontate da Simonetta Neri

In occasione dell'uscita del nuovo libro di Simonetta Neri, Viaggiatrici alla Cascata delle Marmore. Nel giardino della natura (Minerva, 2022) pubblico l'intervista dello scorso anno a proposito del libro Le viaggiatrici del Grand Tour edito da Il Mulino nel 2020 (scritto con Attilio Brilli).



Intorno al 2005 ebbi la fortuna di frequentare il corso accademico sulla storia dell’editoria italiana del professore e critico letterario Gian Carlo Ferretti. Fu uno dei corsi più intensi di quegli anni per vivacità culturale ed eleganza letteraria e ne conservo, tuttora, un ricordo appassionato. Ebbene, conversare con Simonetta Neri, già traduttrice, professoressa e scrittrice, ha smosso quei ricordi vivissimi circa l’editoria italiana, ricordi attraversati da quel romanticismo proprio di chi, come la ragazza che ero nei primi anni 2000, si affaccia per la prima volta al mondo delle lettere e delle arti. Dal piacevole incontro è nata questa intervista, che inizia con il lavoro sulla scrittura sull’ultima fatica letteraria di Neri scritta con il professor Attilio Brilli, Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure pubblicata dalla casa editrice Il Mulino nel 2020. Leggere questo libro, tenendo d’occhio le opere letterarie che lo attraversano, direttamente e indirettamente, offre molti vantaggi, primo fra tutti una completa panoramica sul ruolo della donna in relazione al viaggio e all’ambiente circostante tra la fine del Settecento e l’Ottocento.

 


Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure pubblicato dalla casa editrice Il Mulino nel 2020 è il libro scritto con il professor Attilio Brilli, esperto di letteratura di viaggio. Come è nato il libro, quale lavoro, in termini di ricerche e raccolta documenti, ha implicato e come ti sei mossa nei confronti del materiale letto e analizzato?


Possiamo dire che tutto ha inizio nel 2002 quando, con il professor Brilli, esperto di letteratura di viaggio, pubblicai, con la collaborazione di Gabriella Tomassini, Il fragore delle acque. La cascata delle Marmore e la valle di Terni (24 Ore Cultura) nell’immaginario occidentale una guida che ha varcato i confini della provincia. Il fragore delle acque ci diede modo di presentare la cascata così come è apparsa ai viaggiatori del Gran Tour quale una delle mete dei giovani rampolli dell’Europa del nord che suscitava grande emozione da un punto di vista naturalistico e non solo. Io e Gabriella Tomassini siamo state chiamate a collaborare a un’opera che potesse raccogliere tutte le voci di viaggiatori che avevano visitato la Cascata delle Marmore. Notammo, allora, che molti erano nomi di donne e questo ci incuriosì per quel tempo lontano. Successivamente abbiamo collaborato ad altri progetti, quali traduzioni e volumi, senza scordare il lavoro fatto sui viaggiatori e viaggiatrici in visita alla Cascata. Abbiamo continuato a raccogliere sempre più informazioni su queste donne in viaggio. Ci siamo concentrati sia sulle personalità ma soprattutto sulle opere, quindi il lavoro successivo ha rappresentato la raccolta di opere che spesso non erano in commercio (da questo punto di vista il reperimento di documenti online oppure tramite biblioteche sia nazionali sia inglesi o americane è stato preziosissimo). Alla fine, abbiamo raccolto molto materiale. Dopo aver lavorato a lungo su questo materiale si è pensato di creare un libro che ha coinvolto circa un altro anno e mezzo di lavoro sulle viaggiatrici del Gran Tour la cui ambientazione è tra Settecento e Ottocento.



Viaggio e donne. Quale similitudine hai rintracciato, durante gli studi e la preparazione del libro, tra il viaggio (fisico e interiore) e l’universo femminile?


Le donne in viaggio erano donne già particolari; non si può confrontare il viaggio del primo Novecento fino ad arrivare ai giorni nostri con il viaggio delle donne del Settecento. Queste ultime erano donne che avevano cultura e aspiravano a dimostrare la loro preparazione e il loro desiderio di approfondire lo spirito che le animava verso la conoscenza. Inoltre, erano donne che desideravano dimostrare la loro autonomia, desideravano uscire dagli schemi fissi che, da sempre, avevano relegato la donna entro un cerchio, un giardino molto stretto. Erano donne eccentriche, orgogliose di essere considerate quali donne che potevano affrontare un viaggio in carrozza e anche capaci di esprimere idee. Non erano donne che si limitavano a scrivere ciò che accadeva durante la giornata ma davano opinioni sulla bellezza estetica del luogo, sulle persone che incontravano, sui sistemi politici e governativi dei vari stati, come ad esempio giudizi su Napoleone. Quasi tutte queste donne appartenevano a un livello sociale elevato. Questo discorso si può aprire a tante considerazioni: ci basterà ricordare Lady Blessington che ha sofferto la segregazione del proprio corpo, di nascosto incontrava una maestra per poter leggere, poi il padre l’ha venduta in cambio di pochi soldi, il primo marito ha fatto lo stesso e questa catena di dolore non si è più spezzata. Blessington è diventata succube dell’onnipotenza del patriarcato, tuttavia è riuscita a diventare una gran dama di spirito, appassionata della poesia di Byron tant’è che arrivata in Italia, a Genova, ripercorre tutti i luoghi da lui visitati. Vite avventurose, quelle di queste donne, dove l’esperienza drammatica viene superata dal desiderio di conoscenza e rivalsa verso il maschio dominante.

 


Un nome tra tutte: Mary Shelley.


Lei rappresenta la donna in perpetuo viaggio, la donna più carismatica del suo tempo e profondamente pre-romantica, la donna che riesce a sprigionare quella forza di sentimento che forse nessun’altra aveva espresso in quel periodo. Mary Shelley è anche la donna fuga, in perpetua fuga, per non accantonare mai i suoi desideri, colei che fugge in Francia al seguito di Percy Bysshe Shelley per poi rientrare in Inghilterra. I suoi continui viaggi, compresa la visita in Italia, accrescono la sua creatività. Le sue prime produzioni non vengono direttamente firmate con il suo nome e questa è una caratteristica delle donne del Grand Tour le quali, quando pubblicano, non firmano o non usano il proprio vero nome. Mary Shelley, che per tutta la vita ha avuto un rapporto tormentato e ricco di incomprensioni con il padre e provata dalle numerose umiliazioni in società, riesce a riscattarsi anche e soprattutto attraverso la scrittura.


 

Si tratta quindi di donne che, nonostante le difficoltà sociali e sentimentali, sentono il bisogno di imporre la loro voce, di diventare visibili. 


Esatto. Tutte le sedici donne descritte, pur nelle loro diversità, riescono a dimostrare la loro emancipazione, costruendo la loro identità fuori da quel cerchio nel quale il patriarcato voleva relegarle. Oltre a Mary Shelley potrei citare Madame de Stael che scrive Corinne: or Italy, libro-monumento della letteratura femminile.


 

Donne anticipatrici del femminismo. 


Diciamo che si tratta di donne non così attratte dal femminismo ma ne diventano l’espressione senza averne la bandiera, il loro essere donna è in se stesse. Con loro inizia a riconoscersi la donna quale essere pensante non solo in funzione della famiglia, al servizio del marito e dei figli. La donna non è più colei che è costretta a studiare le maniere per prepararsi alla società ma è tanto di più.



E questa capacità di esprimere loro stesse vien scoperta soprattutto durante i viaggi in Italia.


L’Italia è la terra amata e sognata che, difatti, rappresenta il luogo di realizzazione completa della loro formazione culturale e di un modo di vivere libero e drammatico. Fondamentale per queste donne in viaggio è l’incontro con dame senza trucco e senza parrucche, che ridono liberamente come nella corte di Napoli. Questi incontri destabilizzano le dame d’Inghilterra così abituate al rigore. L’Italia è anche il Paese dove è possibile la ricerca dell’indipendenza politica (ad esempio con la conoscenza dei giovani carbonari: queste dame nutriranno una grande simpatia per questi giovani che si stavano preparando a creare un’altra visione dell’Italia). Infine, il nostro Paese è patria dell’arte e del mondo antico con i suoi resti e reperti storici: la bellezza del paesaggio e la natura incontaminata saranno elementi fondanti per le opere e gli animi di queste donne in viaggio.  Da questo punto di vista si può sottolineare la diversità di sguardo sul paesaggio tra l’uomo e la donna: mentre l’uomo descrive magistralmente il paesaggio ma la sua osservazione tende alla sopraffazione, la natura deve piegarsi al suo sguardo; la donna, al contrario, si immerge totalmente, si getta nel paesaggio e sa leggere il messaggio della natura (stupenda è l’immagine di Mary Shelley che legge nel foro romano). Per la donna la vicinanza con la natura e il paesaggio italiano rappresentano la possibilità di esprimere se stesse apertamente.

  


E a proposito dello sguardo femminile sul paesaggio e sulla natura, come puoi descriverci il tuo sguardo e il tuo rapporto con la tua terra anche alla luce delle tue pubblicazioni sulla Valnerina e sull’Umbria?


Sono nata nella Valnerina e c’è un amore di conoscenza e di crescita che mi lega a questa terra. Ho scritto una guida su Terni, conosco la città molto bene da un punto di vista storico, dalle civiltà più antiche fino alla contemporaneità in cui è immersa Terni, una contemporaneità caratterizzata dall’attesa di trovare qualche realizzazione diversa. Spinta da un amore che ho ereditato dalla mia famiglia e anche da uno studio costante, mi sono accorta che la nostra è una terra amata da chi è in viaggio, una terra dove i viaggiatori e le viaggiatrici di tutti i tempi trovano la libertà nel contatto stretto con la natura. La bellezza di alcuni luoghi, come la Cascata delle Marmore, ci fa comprendere quei concetti, di meraviglia e stupore, tali che ammirare proprio questi luoghi, e il loro splendore così mutevole, ci porta a riflettere sul continuo mutare umano sempre uguale ma al tempo stesso diverso.






Proprio sulla Cascata delle Marmore e sulle donne in viaggio, Simonetta Neri ha dato alle stampe Viaggiatrici alla Cascata delle Marmore. Nel giardino della natura pubblicato da Minerva Edizioni. 


Protagoniste di questo libro, le viaggiatrici del Grand Tour si sono dimostrate le interpreti più sensibili del grandioso spettacolo costituito dalla Cascata delle Marmore. Intrepide, vi giungevano da Terni, risalendo la Valnerina a bordo di calessi o in groppa a muli, e una volta giunte alla meta contemplavano il flusso poderoso delle acque sul quale proiettavano le loro più intime sensazioni. Furono costoro attente osservatrici di un ambiente paesaggistico, al cui fascino hanno cooperato l’esuberanza della natura e l’ingegno dell’uomo, e descrissero con ricchezza di dettagli e profonda sensibilità uno scenario di sublime bellezza costituito da acque irruenti, aspre montagne e piccoli borghi incantati. La capacità delle viaggiatrici di analizzare l’impareggiabile vegetazione che abbraccia, rimanendone irrorata, il precipitare delle acque è sorprendente e non ha riscontro nel più frettoloso sguardo maschile. Nel 1869 Elisabetta Fiorini Mazzanti affermava che visitare la Cataratta del Velino è desiderio di chi è sensibile al bello della natura, ma molto di più lo è per l’artista che dipinge questo stupendo scenario, o per il botanico il quale rimane estasiato da una vegetazione assai rara che, nata in questo microclima, contribuisce non poco alla ricchezza naturalistica del luogo. Teste coronate e colte viaggiatrici di ogni parte del mondo hanno consolidato con i loro scritti il mito della Cascata come spettacolo paesaggistico, creazione storica e fonte di energia pulita, facendo nascere nel lettore d’oggi il desiderio di visitare una grandiosa caduta d’acque che per secoli è stata una tappa essenziale del viaggio in Italia.

 


Simonetta Neri  è traduttrice, scrittrice e docente di lingua inglese. Si dedica ad un ampio lavoro di traduzione e alla critica di personaggi (collaborando con diverse case editrici tra cui Sellerio), con particolare attenzione alle scrittrici di viaggio, alla letteratura di viaggio inglese e americana dell’800 e del primo ‘900. Profonda conoscitrice e appassionata delle tradizioni della storia della sua terra, l’Umbria, è autrice di numerose pubblicazioni e guide letterarie di questi luoghi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Viaggiatrici alla Cascata delle Marmore. Nel giardino della natura (Minerva, 2022),  in collaborazione con A. Brilli Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure (Il Mulino, 2020), Valnerina. Itinerari tra natura, storia e mito. Invito al viaggio (Minerva Edizioni Bologna, 2018), con A. Brilli Sulle tracce di San Francesco (Il Mulino, 2016), con A. Brilli Alla ricerca degli eremi francescani fra Toscana, Umbria e Lazio (Le Balze, 2006), con A. Brilli e G. Tomassini Il fragore delle acque. La cascata delle Marmore e la valle di Terni nell’immaginario occidentale (24ore Cultura, 2002), Terni. Guida della città e dei dintorni (Edimond, 1999).

giovedì 12 maggio 2022

Donne nella Scienza e nella Matematica: affinché il corpo femminile non sia più costola di uno maschile

In occasione della Giornata internazionale delle donne nella Matematica, che si celebra il 12 maggio (data scelta dall’International Mathematical Union nel 2019, per ricordare la matematica iraniana Maryam Mirzakhani nata a Teheran il 12 maggio 1977 e scomparsa prematuramente il 15 luglio 2017), ripropongo un mio articolo di approfondimento dedicato alle donne nella scienza: il gender gap e l’emarginazione della voce femminile.

 

 


Raccontare le donne nella scienza significa immergersi in una storia di emarginazione femminile. La questione sottende un gender gap che, se sul piano etimologico, linguistico e semantico ha assunto velleità differenti rispetto ai secoli passati (basti pensare alle forme femminili dei nomi nelle professioni spesso relegate in posizioni subalterne, non ufficialmente riconosciute oppure utilizzate con valenza dispregiativa), sul piano sociale e culturale il divario continua a dimenticare la voce e il corpo femminile.

 

«Donna, alle donne è ornamento il silenzio». È il monito di Aiace che, probabilmente, riprende la nota espressione proverbiale, «ornamento per la donna è il parlare poco».

 

Volendo restare nel passato, l’avvento del Cristianesimo ha contribuito ad una sorta di esclusione della donna dalla vita sociale poiché essere inferiore, seconda all’uomo (difatti si tramanda che il corpo femminile serve all’uomo affinché quest’ultimo non si senta solo).

 

Silenzio, obbedienza e fedeltà, come si ravvisa da queste testimonianze classiche, sono qualità che accompagneranno la donna durante tutto il periodo medioevale. Alla donna spetta il ruolo di angelo del focolare. Nonostante lo scorrere dei decenni, il sapere scientifico-matematico è pressoché inaccessibile alle donne.

 

L’era della rivoluzione scientifica non incide sulla marginalità della donna che, al contrario, viene ampiamente sostenuta e argomentata da molti filosofi: Kant asserisce come la mente solida e laboriosa sia propria dell’uomo e che, pertanto, le donne non possono in alcun modo capire e conoscere le scienze matematiche; analogamente Rousseau è un ardito sostenitore della frivolezza e della volubilità dell’animo femminile che, di conseguenza, non può accedere alla matematica e alla scienza.

 

L’assenza delle donne nella scienza riflette una carenza del pensiero: la società ragiona in termini maschili e parla una lingua maschile, si adegua alla volontà del maschio e insegna alle donne, da tempi immemori, il silenzio. Quante sono le figure femminili che, nella storia, hanno imparato il silenzio? Tacita, Penelope, Maria… figure mitiche, ancelle di padri-padroni, mariti onnipotenti e onnipresenti, figure alle volte private del volto e del corpo. Nicoletta Polla-Mattiot ha ridato voce a queste figure nel suo recente saggio, Singolarefemminile. Perché le donne devono fare silenzio (Mimesis Edizioni, 2019): un viaggio nel tacere femminile, scelto e imposto, cercato e subito, e nelle donne che lo incarnano: eroine letterarie, personaggi reali o d’immaginazione, archetipi in cui risuona il destino comune e pur tuttavia l’esperienza singolare femminile.

 

I primi nomi di donne nella scienza sfuggiti all’obliterazione compaiono nel Settecento: Gabrielle Émilie Le Tonnelier de Breteuil, matematica, fisica e letterata francese, e Maria Gaetana Agnesi, anch’essa matematica (autrice di due volumi), filosofa, teologa, accademica (le venne offerta la cattedra di matematica all’Università di Bologna), traduttrice, donna di grande cultura, spirito libero fino alla morte.

 

Negli stessi anni, è da ricordare l’italiana Laura Bassi, ricercatrice e docente. Nel 1749, Bassi fondò presso la sua abitazione a Bologna una Scuola di Fisica Sperimentale. Il centro di ricerca divenne famoso in molti Paesi dell’Europa tanto che nel 1776 il Senato le conferì la cattedra di Fisica sperimentale presso l’Istituto delle Scienze (fondato nel 1714 a Bologna da Luigi Ferdinando Marsili).

 

In uno studio articolato, Jenny Boucard e Isabelle Lémonon parlando delle donne nella scienza (dalla matematica alle scienze astratte) hanno analizzato come per tutto il Settecento e parte dell’Ottocento, era radicatala convinzione secondo la quale l’estromissione delle donne dallo studio delle materie scientifiche e matematiche fosse indispensabile al fine di salvaguardare la salute e l’integrità fisica delle donne stesse.

 

Dobbiamo attendere la fine dell’Ottocento per vedere la prima donna insignita del dottorato di ricerca in matematica: Sofja Kovalevskaya, di origini russe.

 

L’obliterazione femminile continuerà a rimanere invariata fino ai primi del Novecento. Successivamente, sono tanti i nomi che hanno ricoperto (e ricoprono tuttora) ruoli di spicco in campo scientifico. Solo per citarne alcuni: Grete Hermann, scienziata, filosofa, politica e docente; Grace Murray Hopper, docente universitaria (dopo aver ottenuto il dottorato di ricerca in matematica a Yale), voce di spicco del panorama informatico americano e internazionale; Amalia Ercoli Finzi, accademica, scienziata e ingegnere aerospaziale al Politecnico di Milano; Albina Messeri, botanica, ricercatrice e docente universitaria; Marie Curie, premio Nobel per la fisica e premio Nobel per la chimica; Luciana Bianchi, professoressa e dirigente di ricerca al Dipartimento di Fisica e Astronomia della Johns Hopkins University a Baltimora; Margherita Hack, una delle più grandi astrofisiche e scienziate della storia italiana nonché accademica e divulgatrice scientifica; Rita Brunetti, fisica italiana; Lydia Monti, nominata ordinario di Chimica farmaceutica e tossicologica dell’Università di Siena nel 1940, di cui è stata preside dal 1958 al 1960; Elena Cattaneo, tra i massimi esperti italiani e punto di riferimento internazionale nello studio delle cellule staminali e delle malattie neurodegenerative; Fabiola Gianotti, fisica italiana e direttrice generale del CERN di Ginevra; Rita Levi Montalcini, insignita del premio Nobel in area scientifica.

 

Impossibile fare un elenco esaustivo di tutte le donne nella scienza dimenticate, volutamente o meno, dalla Storia. A dare loro voce, oltre alla già citata Nicoletta Polla-Mattiot, ricordiamo anche il volume di Elisabetta Strickland (professoressa ordinario di Algebra presso l’Università di Roma Tor Vergata), Scienziate d’Italia. Diciannove vite per la ricerca (Donzelli, 2011) il cui intento ha una doppia natura «rendere un tributo al lavoro caparbio delle scienziate italiane e alla loro straordinaria intelligenza, e riflettere sul ruolo della donna nella ricerca e sui principali ostacoli alla parità nel mondo scientifico».

 

Per bambini e adolescenti vi è la collana pubblicata da Editoriale Scienza e dedicata alle donne nella scienza, biografie illustrate e sapientemente raccontate in cui il percorso professionale «si intreccia con quello delle vicende personali e degli affetti, nonché con gli interessi, le passioni e i sentimenti che animavano queste scienziate».

 

Di più recente pubblicazione è il saggio di Caroline Criado Perez, tradotto nel 2020 da Carla Palmieri per Einaudi. Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano: è il titolo del libro di Criado Perez che ci pone difronte a una verità allarmante: «le storie che ci raccontiamo riguardo al nostro passato, al presente e al futuro sono tutte contrassegnate da una presenza-assenza che ha la sagoma di un corpo femminile. È il gender data gap, la mancanza di dati di genere». «È importante chiarire sin d’ora che l’assenza di dati di genere» precisa Criado Perez «non è sempre malevola, e neppure premeditata. Spesso è solo la conseguenza di un modo di pensare che esiste da millenni e che, in un certo senso, è un modo di non pensare».

 

Alla fine di ogni giornata ci si chiede che cosa ne sia rimasto. E anche oggi, ci chiediamo se la Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza e la Giornata internazionale delle donne nella Matematica abbiano contribuito a gettare le basi per la costruzione, vera  e concreta, della parità di genere, affinché il corpo femminile non sia più costola di uno maschile, affinché non vi siano più donne costrette a costruirsi o “inventarsi” una stanza tutta per sé, affinché nessun uomo debba più spiegare le cose alle donne mettendole a tacere, affinché nessuna donna sia più costretta o invitata a fare un passo indietro. In una frase sola, ci chiediamo se queste giornate abbiano contribuito all’uguaglianza di genere affinché il nostro sesso non sia più secondo a nessuno.

mercoledì 11 maggio 2022

Regarde les lumières, mon amour: lo sguardo sociologico di Annie Ernaux nel progetto di Rosanvallon per le Editions Seuil

 

Agli inizi degli anni duemila, Filippo La Porta si domandava se fosse «ancora possibile fare esperienza diretta delle cose in un mondo di simulazioni e simulacri». Parole profetiche che se all'epoca sembravano strizzare l'occhio a Baudrillard, oggi risuonano quanto mai attuali.

In questo gioco di rievocazioni storiche e letterarie, più o meno consapevoli delle regole alle quali ci sottoponiamo, ci si chiede a che punto della storia siamo arrivati, se davvero, come preannunciava Pasolini, ci stiamo affacciando alla sua fine, causata dall'industria e dal mondo della tecnologia, oppure se siamo alle soglie di una nuova era. Secondo il parere di chi scrive, ognuno ha il suo pezzo di storia e quella sta mutando. Fermarsi a osservare e raccontare la vita può essere la risposta alla domanda di La Porta, il punto di innesco per salvarsi dal tritacarne mediatico dell'era virtuale e cogliere l'essenza di quella che Hanna Serkowska definisce letteratura dell'esperienza.

Per fare esperienza diretta delle cose della vita è necessario calarcisi dentro. Raccontare diventa la missione per l'esplorazione umana, per conoscere e capire il reale assetto della società, per affondare la lama della scrittura nell'indagine etnografica del quotidiano alla maniera di Pierre Bourdieu che ha raccolto le sue osservazioni e quelle dei suoi colleghi nel poderoso volume La miseria del mondo pubblicato in Francia da Editions Seuil agli inizi degli anni Novanta. Le oltre mille pagine di Bourdieu attraversano gli anni delle disuguaglianze sociali mai pienamente sanate dal secondo mandato di François Mitterand. Il racconto procede per interviste, dialoghi durante i quali si annulla la distanza tra chi fa le domande e chi racconta la propria vita. Lavoratori, immigrati, contadini, agenti di polizia, infermieri, studenti, persone ai margini strangolati dalla società del benessere che invece di appianare le differenze non fa che acuirle, accelerando quel sistema di precarietà sul quale, oggi, si fondano le società di molti Paesi europei e generando una nascente classe sociale, quella dei nuovi poveri. Negli stessi anni della pubblicazione di Bourdieu, viene portato al cinema uno spaccato delle banlieue parigine grazie alla sceneggiatura di Mathieu Kassovitz con il film La Haine con un giovane quanto promettente Vincent Cassel simbolo del disagio e delle violenze nei sobborghi metropolitani. Qualche anno più tardi, in Italia, esce per Laterza Globalizzazione e disuguaglianze del sociologo Luciano Gallino, un libro che ha messo in luce la crisi innescata dalla finanziarizzazione dell'economia capitalista e di quanto le sue estreme conseguenze si riflettano su un'ampia fetta di popolazione senza voce e senza diritti (Salvatore Veca, Iride, 2016).

Questi racconti, letterari e cinematografici, sono viaggi nella genealogia sociologica di un'Europa attraversata dal neoliberismo che danno voce a interi Paesi che, parafrasando Pierre Rosanvallon, non si sentono ascoltati e rappresentati.

Seguendo l'onda lunga del pensiero filosofico e sociologico di Bourdieu e a partire da Les Parlement des invisibles di Rosanvallon, una decina di anni fa viene creata la collana Raconter la vie per Editions Seuil: oltre quindici titoli che hanno creato un ponte in grado di congiungere gli invisibili con la scena politica e sociale contemporanea. La collana, diretta proprio da Pierre Rosanvallon con la codirezione di Pauline Peretz, attinge a diverse fonti sociologiche e letterarie tra cui, oltre al già citato Bourdieu, Robert Ezra Park, Michel Foucault, il volume Let us now praise famous men di Walker Evans e James Agee, e poi Honoré de Balzac, Charles Dickens, William Faulkner, Virginia Woolf, George Orwell.



Libri brevi e dall'immediato impatto grafico capaci di suggerire l'idea di una rinnovata circolazione delle opinioni cercando di sfidare le difficoltà del panorama editoriale (difficoltà che sono lievitate con la pandemia).

Tra questi libri anche Regarde les lumières, mon amour di Annie Ernaux, da alcune settimane nelle librerie italiane grazie alla traduzione della casa editrice L'Orma. Guarda le luci, amore mio di Ernaux si inscrive a pieno titolo negli intenti di Rosanvallon e Peretz: comprendere la realtà attraverso la vita delle persone, farsi strada nel loro quotidiano, raccontare la loro storia per renderli visibili, inserire le singolarità in una pluralità di voci. Dare voce significa anche riflettere e confrontarsi con una storia diversa dalla propria, mettersi in ascolto, combattere pregiudizi e stereotipi.

Da novembre 2012 a dicembre 2013, Annie Ernaux annoterà sul proprio diario le sue visite all'Auchan nel centro commerciale Les Trois Fontaines di Cergy: «una libera rassegna di osservazioni, di sensazioni, per tentare di cogliere qualcosa della vita che vi si svolge».

Nel cuore di Cergy-Préfecture, quartiere pulsante della vita cittadina dove si concentrano i maggiori servizi, sorge quello che è considerato il più grande centro commerciale della Val-d'Oise. Ci siamo addentrati più volte a Cergy, lungo i boulevard della città, attraverso la scrittura fotografica di Annie Ernaux. Questa volta al centro della narrazione vi è l'esposizione del corpo al supermercato, luogo in cui si fa esperienza della «dimenticanza di se stessi nella contemplazione» e, al contempo, in cui si è imprigionati nello sguardo altrui quando si è più vulnerabili.

La merce comprata e posizionata sul nastro scorrevole della cassa mette a nudo le nostre abitudini, «gli interessi più intimi. Persino la composizione della nostra famiglia (…) Il tempo trascorso in fila alla cassa, quello in cui siamo più vicini gli uni agli altri. Osservatori e osservati, ascoltanti, ascoltati (…). Mentre ci si espone, con il corpo, i gesti, la vivacità o la goffaggine — rivelare di essere stranieri nel chiedere una mano alla cassiera per contare le monete. Le proprie attenzioni nei confronti degli altri — mettere il divisorio dietro la spesa come forma di gentilezza per il cliente successivo, infilare il cestello vuoto nella pila ai piedi del nastro. Ma in fondo, proprio in virtù del fatto che non ci si conosce, infischiandosene di questo essere improvvisamente esposti».

Le sue frequentazioni all'Auchan diventano sempre più fitte, più volte a settimana e in diversi orari della giornata per meglio cogliere la stratificazione sociale. Ed è così che i vari piani del centro commerciale diventano un unico palcoscenico della varia umanità che lo vive abitualmente. Il settore discount accoglie i cosiddetti «mangia a poco (un'espressione di Thomas Bernhard)», persone che comprano senza badare alla provenienza o alla qualità del prodotto, presentato miseramente e altrettanto miseramente ammassato su bancali di legno con noncuranza. L'unica preoccupazione in questo settore è comprare grandi quantità a basso costo. Anche la narrazione delle etichette, la geometria delle corsie, la disposizione della merce, tutto trasuda sciatteria e approssimazione. Banditi il buon gusto, l'eleganza e la persuasione del marketing, ogni cartello impone divieti e mette in guardia: «l'avvertimento è riservato alla popolazione considerata più pericolosa, dal momento che non compare sopra le bilance del reparto frutta e verdura nella parte normale del supermercato».

Il reparto giocattoli con la sua rigorosa distinzione tra giochi per maschi e giochi per femmine (ai primi è riservata la possibilità di scegliere tra forza, audacia e ingegno, mentre per le seconde ogni prodotto è in funzione del ruolo di madre che dovranno ricoprire) ripropone il problema culturale degli stereotipi di genere: «Femen è qui che dovete venire, alla fonte, per mettere soqquadro gli scaffali che modellano il nostro inconscio».

Questi nonluoghi continuano ad essere prolungamenti dell'universo femminile. Ernaux osserva come le donne, ad oggi, riescano a muoversi con disinvoltura tra le corsie, sapendo esattamente cosa prendere in base a ciò che manca a casa mentre gli uomini, se da soli, arrancano ed esitano davanti alla scelta di uno stesso prodotto determinato da marche differenti.

 

Attraversando le corsie e i reparti, salendo e scendendo le scale mobili, Annie Ernaux si fa testimone della vita di chi le sta davanti in fila alla cassa, al reparto libreria del livello uno, oppure di chi sta scegliendo un prodotto e inizia a parlare a voce alta, intrattenendo lunghi discorsi come se fosse in compagnia di un interlocutore, della giovane coppia che tentenna davanti alla varietà di formaggi calibrando le proprie indecisioni e facendo i conti con l'inizio di una convivenza. Essere testimoni di questi frammenti di vita è un privilegio e una responsabilità. Impone rigore nell'osservazione, metodo nella trascrizione di quanto si è visto e osservato, confronto con le immagini restituite dalla memoria, fotografie di altri supermercati. Stesse scene ma appartenenti ad epoche diverse come al Carrefour all'avenue de Genève di Annecy nel 1968 o qualche anno dopo, nello stesso posto, quando sentendo un ragazzo che negavano la paternità davanti al livore della ragazza, Ernaux pensa, per la prima volta, «che anche in un capannone privo di grazia erano ospitate delle storie, delle vite» e si chiede come mai i supermercati non compaiono nei romanzi, quanto tempo ci vuole «affinché una realtà nuova possa assurgere alla dignità letteraria».

Quale che sia la risposta (che Ernaux tenta di rintracciare sia nel coacervo di attività demandate alle donne e che, tradizionalmente, sono considerate invisibili sia nella provenienza di molti scrittori della sua generazione o di quella precedente che, vivendo nel centro di Parigi, non hanno conosciuto la realtà dei supermercati poiché non esistevano), in questo andirivieni tra un piano e l'altro del centro commerciale, seguiamo con lo sguardo Annie Ernaux mentre si fa carico di un momento della storia, ciò che vede, ciò che scriverà «perché vedere per scrivere è vedere altrimenti. È distinguere oggetti, individui, meccanismi e conferire loro valore d'esistenza».



Parte del mio studio sull'opera letteraria di Annie Ernaux è contenuto nel mio ultimo, L'evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore libro 

venerdì 6 maggio 2022

Parlare rende liberi. Il racconto autobiografico di Belen López Peiró in Perché tornavi ogni estate

 


«E allora perché tornavi ogni estate? Ti piace soffrire? Perché non rimanevi a casa tua?». L'incipit è un pugno allo stomaco. Arriva all'improvviso, con tutta la violenza possibile. In quelle parole serpeggia la menzogna, l'omertà, la banalizzazione della violenza legittimata nell'atto di colpevolizzare una ragazzina di appena quindici anni. Belén López Peiró con il suo libro Perché tornavi ogni estate (La Nuova frontiera, nella traduzione di Amaranta Sbardella) ci porta nella stagione crudele della sua infanzia, a Santa Lucía non lontano da Buenos Aires. È nella casa dei suoi zii che si consuma l'orrore.


Di giorni lui le prepara la colazione, la porta con sé sfoggiandola come un oggetto prezioso davanti ai suoi colleghi. La coccola e si prende cura di lei come farebbe uno zio. Di notte abusa del suo corpo, lo soffoca, lo spezza. E ogni volta che le sue dita frugano dentro di lei, lui si porta via qualcosa di quella ragazzina un tempo spensierata.


Belén si sente merce di scambio, un pacco che la madre lascia a «dicembre, alla fine della scuola» per «riprendere a marzo, ormai posseduta. Una verginella all'arrivo, uno scarto all'uscita». Tra la depressione della madre e l'assenza del padre, lei diventa un punto sempre più piccolo. Vorrebbe svanire, scomparire per sottrarsi alle mani dello zio, allo sguardo dei parenti, della zia, della cugina Florencia.


La vergogna si insinua nei vestiti, nei gesti quotidiani, nella sua figura riflessa allo specchio: «quelle gambe un tempo toccate non ti appartengono più, gambe da ragazzina, da ragazzina provocante, da ragazzina provocante e complessata».


E allora perché tornare ogni estate? Perché non mettere fine a quel dolore, a quell'annientamento? Perché non mettere fine a quella caduta, quello sprofondare sempre più giù, fino a diventare un brandello di carne senza identità?


Belén López Peiró racconta in prima persona la sua storia. Al suo grido di dolore si uniscono le voci degli altri componenti della famiglia e di coloro che ruotavano attorno ad essa: i genitori, il fratello, la zia, i cugini, la pediatra, lo psicologo, il fidanzato.


Le persone che avrebbero dovuto amarla e proteggerla hanno preferito fingere di non vedere quel che stava accadendo proprio tra le mura domestiche. Come la zia, che una notte si alza, forse per andare in bagno, forse per bere un bicchiere d'acqua. Passa accanto alla stanza, la porta è spalancata. Suo marito è nel letto della nipote. Il suo sguardo cambia direzione, gli occhi si posano altrove. «Fare finta di niente significa difenderlo, essere accondiscendente con un animale che ha preso a botte sua moglie e si è scopato sua nipote. Significa essere accondiscendente con un tipo che ha preteso un pagamento in natura per ogni sua gentilezza. Significa accettare e incoraggiare la brutalità di un uomo che crede di poter prendere in prestito l’infanzia di una donna e distruggerla».

 

Cosa resta dopo la vergogna, dopo l'abuso, dopo il vuoto che diventa sempre più grande, che paralizza, quel vuoto che, a pensarci, diventa parte del corpo abusato? Che cosa resta? Il silenzio. «Tacere è sempre stato il castigo peggiore». Eppure, quando il muro del silenzio si rompe, esplode la polifonia vocale che ha contribuito alla violenza. L'abuso non è nato da una persona sola, l'abuso è stato perpetrato anche da coloro che hanno preferito voltarsi dall'altra parte: dalla zia, dai genitori assenti, dalla pediatra che non si è accorta delle lacerazioni, dalla giustizia che spesso alimenta la pratica dissacratoria verso coloro che subiscono violenza attraverso lo slut-shaming e l'oggettivazione sessuale.


Perché tornavi ogni estate è uscito nel 2018 in Argentina, ora in corso di traduzione nelle maggiori lingue europee. Tre anni dopo, Belén López Peiró racconta il seguito nel libro Donde no hago pie, sul processo giudiziario e sulla rivittimizzazione che esso ha comportato.


La voce di López Peiró diventa un'audace quanto necessaria accusa contro il sistema politico e sociale di gran parte dell'America Latina dove c'è ancora molta strada da fare circa il rispetto della donna e il diritto alle pluralità nonostante i recenti traguardi raggiunti (come la legalizzazione dell'aborto).


La storia di Belén López Peiró ha iniziato a venire a galla durante un workshop letterario. «Mi tremano le mani. Prendo fiato. Leggo tutte le voci della storia e quando finisco sento come il mio corpo ormai leggero accasciarsi sulla poltrona» e questo a riprova, come scrive lei stessa, che «parlare rende liberi, anche se le catene non se ne vanno».

La voce di Antonella Rizzo nel suo ultimo libro, Il fazzoletto di stoffa (Kinetès Edizioni)

 




Sento la voce dell'autrice. La sua parola scuote il mio corpo. È un brivido. Un momento che lascia spazio a un baluginare di pensieri ed emozioni. «Non sono io la donna del libro. Tutt'al più le assomiglio, come può assomigliarle qualsiasi donna del nostro tempo che vive sola e che lavora e che pensa». Così si raccontava Oriana Fallaci in una lunga intervista negli anni Settanta. La voce di Fallaci si sovrappone a quella di dell'autrice del libro che sto leggendo. E con lei quella di tante altre donne. Madri, sorelle, amiche. Compagne di vita e di viaggi, di attimi condivisi, di dolori taciuti.

Vengo trasportata dal libro di Antonella Rizzo. Il fazzoletto di stoffa (pubblicato da Kinetès Edizioni, 2021) è una raccolta di racconti brevi, incisivi, luminosi. La voce di Rizzo, autentica e audace, accompagna alla scoperta della vita di Olivia e delle sue stagioni, per le vie di Roma dove antico e moderno si scontrano di continuo, conduce negli incubi di Anastasia, accanto a Venere, oppure al fianco di un corpo sfinito durante la quarantena.

Sono questi alcuni dei racconti di Rizzo che rappresentano l'umanità incontrata ogni giorno. Un'umanità spesso strattonata e trascurata che trasforma il singolo, oggettivandolo e disumanizzandolo. Ed è lì che la parola dell'autrice cede il posto a quella delle singole storie raccontate. È in loro che ci si riconosce. Si scivola nelle fragilità delle protagoniste, nelle loro angosce, nella loro rabbia, nella loro determinazione. È come guardarsi allo specchio, scoprirsi indifese difronte alla narrazione atroce e veritiera al tempo stesso (come nel racconto Femminismo chimico). Nella lettura si rintracciano segni di comunione di sentimenti e d'intenti.

Nello sguardo dell'altro si cerca il valore del gesto incondizionato. Donare senza pretendere nulla in cambio, donare per alleviare. 

I racconti di Rizzo dipingono un quadro frammentato da brandelli di bellezza e sincerità intrecciati insieme. Come scrive Giorgio Ghiotti nella prefazione, «restiamo felicemente incantati e ammirati dalla capacità dell'autrice di ibridare narrazione e riflessione, invenzione e respiro saggistico». 

Il fazzoletto di stoffa di Antonella Rizzo suggerisce più letture per poter assaporare la moltitudine di voci che si dispiegano tra queste pagine. Ognuno ritroverà qualcosa di se stesso, una parte del proprio io, quella parte nascosta ai più, velata da mistero e che, talvolta, noi stessi fatichiamo a mettere a fuoco. Ognuno, dicevo, troverà qualcosa di sé e quindi auguro a questo libro di essere letto più e più volte da diverse persone affinché possano cogliere l'essenza degli attimi proprio perché è in quei momenti che, come scrive Rizzo, «può succedere quello che non è successo in una vita».

Viola Ardone e il coraggio di Oliva Denaro

 


«La parola scritta ha un suo primato e una sua durata: arriva a sfidare i secoli». Così scriveva, alcuni anni fa, Paolo Mauri a proposito di Lidia Storoni Mazzolani all'indomani della sua scomparsa. Con quelle parole, Mauri rievocava l'indagine narrativa della scrittrice permeata dalla storia della condizione della donna, una storia, spesso, fatta di lunghi silenzi.

La femminilità silenziosa è uno dei temi al centro dell'ultimo romanzo di Viola Ardone, Oliva Denaro, pubblicato da Einaudi nel 2021 e presentato al Premio Strega 2022 da Concita De Gregorio.

Ho avuto il piacere di presentare il libro di Ardone sabato 5 marzo presso la Biblioteca Raffaello di Roma e, in quell'occasione, ho rintracciato quanto Ardone sembra raccogliere l'eredità letteraria di Mazzolani. Il suo libro risente della storia di quel piccolo mondo antico, Martorana, un paese della Sicilia degli anni '60, e delle sue idee e concezioni dalle quali deriva l'immagine morale della donna.

Incontriamo Oliva mentre sgattaiola dalla sua stanza, le galosce di gomma e il secchio in mano. È fiera di essere l'aiutante di suo padre. I babbalucci basta staccarli dalla roccia e metterli nella sporta, più difficile è acciuffare le rane. Ogni volta è una gioia tornare a casa con il bottino per la cena. Quando non porta le galosce, Oliva indossa gli zoccoletti e la gonna le sfiora il ginocchio. Ma andare a lumache e rane non è una cosa da femmina, sua madre le ripete spesso questa frase. Essere femmina significa conservarsi virtuosa, integra e pulita, tenere lo sguardo basso. Sparire nella bolla dell'invisibilità, diventare un plurale indefinito e anonimo, annullare le proprie attitudini e desideri: in questi pochi ma pesanti insegnamenti è racchiusa l'esistenza di una donna.

Il salto dall'infanzia alla fanciullezza avviene nell'arco di un giorno. Oliva si scopre femmina, esce dalla bolla d'invisibilità e diventa oggetto di sguardi, corpo a uso e consumo del desiderio maschile. «Conservati virtuosa, di te non far sparlare, non farti trascinare da brutte compagnie». Nonostante l'osservanza delle regole dell'obbedienza, Oliva verrà presa con la forza, usata e abusata.

«La colpa è di chi fa, non di chi patisce». A parlare è Liliana, la migliore amica di Oliva. Ama la libertà, veste come vuole, sperimenta le sue emozioni e gioca con i suoi desideri, costruisce la donna che diventerà da grande e partecipa alle riunioni del padre comunista. Sarà lui a consigliare alla famiglia di Oliva di non arrendersi davanti alle minacce dell'uomo che l'ha violentata. E sarà la sua voce a catturare l'attenzione del padre di Oliva, questo uomo meraviglioso che tende la mano alla figlia, sempre e in ogni momento, stringendola, appena appena, e accompagnandola verso la libertà.

Riecheggia la voce di quella ragazza di Alcamo che nel '65 rifiuta di sposare l'uomo che l'aveva violentata. Quella ragazza che con coraggio e determinazione dice, durante il processo: «l’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce».

«La storia di una donna è la storia di tutte le donne» scrive Ardone. Ed è lì che qualcosa, dentro di me, si è incrinato. Ho ceduto alla storia di Oliva. Perché, in fondo, è vero quello che scrive Viola Ardone. Nella storia di una donna c'è qualcosa di tutte le donne. Quando usciamo dallo sguardo dello sciovinismo maschile e ci mettiamo in ascolto della voce della donna che ci sta accanto è in quel momento che ci riconosciamo.

Nella storia di Oliva Denaro ho visto quella di tante altre ragazze che non hanno avuto un padre che stringesse loro la mano, non hanno avuto la possibilità di lasciarsi indietro quello che hanno perso e raccogliere i cocci per ricostruire e riscoprire la propria identità. È a queste donne che sembra rivolgersi la voce di Oliva Denaro, a tutte coloro che corrono a «scattafiato senza guardarsi indietro, che conoscono la forma segreta delle nuvole e cercano di indovinare l'amore nei petali di un fiore» perché la storia di una donna non sia più quella di un lungo silenzio.

Mezza nuda di Marie Gauthiers: l'esordio narrativo vincitore del Premio Goncourt 2019

 


Ci sono storie che si librano tra la dimensione poetica dello sguardo dell'autore e la sua, personale, scelta strutturale. È il caso dell'esordio narrativo di Marie Gauthiers, Mezza nuda, in Francia edito da Gallimard e vincitore del Premio Goncourt esordienti 2019, in Italia pubblicato da Edizioni Clichy alla fine dello scorso anno nella traduzione di Tommaso Gurrieri.


Caratterizzato da una forte connotazione cinematografica, Mezza nuda ci proietta nella campagna francese in un tempo sospeso, quello delle infinite estati afose e travolgenti, in cui tutto è possibile e tutto può accadere. Nel villaggio bagnato dal fiume dove ognuno fa la sua comparsa rivestendo il ruolo che gli compete, si realizzerà l'educazione sentimentale di Felix, giovane «corpo maldestro di adolescente» ospite per i mesi estivi nella casa del cantoniere per imparare un mestiere in attesa di riprendere le lezioni scolastiche. Per tutto il giorno, Felix segue il cantoniere, l'uomo con la sigaretta in bocca: tuta, guanti da lavoro e scarponi. Si inizia la mattina presto per spalare, spazzare e raccogliere i calcinacci. Gesti semplici, antichi mentre i suoi pensieri sono proiettati verso Gil. È lei che nutre le sue fantasie.


Gil, che sta per Gilberte Anastase Luce, è la figlia dell'uomo con la sigaretta in bocca. La ragazza, di due anni più grande, dai lunghi capelli biondi e arruffati, lavora al minimarket del paese e la sera scompare oltre la siepe, oltre gli alberi, sfugge allo sguardo del padre e di Felix.


Gil, questa giovane Perrette protagonista della favola postmoderna di Marie Gauthiers, se ne va, «légère et court vêtue» come suggeriscono in esergo le parole di Jean de La Fontaine, alla ricerca delle mani pulite di un uomo in grado di «alleviare la sua condizione. Per trovare la leggerezza. «Le mani di un uomo, il suo corpo» avrebbero «realizzato quel prodigio».


«Giovani, meno giovani. Gil era il centro del villaggio, il centro di tutto». Gil l'amante. Gil l'universo segreto, irreale. Cosa ne era stato di quella ragazza prima dell'arrivo di Felix al villaggio? Perché Gil aveva smesso di andare a scuola? Perché diventare il fuoco dei lombi di un uomo di passaggio? Il suo corpo sembra essere senza storia, senza passato e senza futuro, nelle mani di qualcuno che lo rigetta in pasto alla noia dell'estate dopo averlo usato. E lei, Gil, come si sente? Cosa prova quella ragazza che ha una fame da lupi?


Anche la scrittura si libra tra una variegata modulazione di toni: tra le palpitanti immagini di un'estate che è stata e che non ritornerà, tra le riflessioni di Felix su quanto sia destabilizzato dal desiderio di stare con Gil e, nel contempo, l'incapacità di perseguire fino in fondo i suoi intenti, tra le istantanee suggestioni di un tempo e un luogo intrisi di malinconia per ciò che avrebbe potuto essere e che ha già il sapore di qualcosa che non è più, si staglia una narrazione iconografica, luminescente. La cifra stilistica coglie il dolore nel momento esatto in cui si incrina il desiderio: la storia si riannoda su se stessa, gli eventi esplodono.


Scavando nella «memoria con la penna in mano», Felix ritornerà a quel villaggio, a quel fiume, alla casa del cantoniere, alle lunghe attese di Gil di ritorno dai suoi incontri notturni con gli uomini di passaggio. Con la penna in mano, Felix restituirà il nome alla ragazza che voleva essere solo «una brezza bionda dorata, portata da gambe nude e bianche» e darà un nome anche a quell'estate, la divina estate che porta via con sé, come scriveva qualcuno anni fa, anche il meglio delle favole.