venerdì 10 settembre 2021

Intervista a Antonio Pascale

Sulle parole che perdono il loro significato, smarrendo la connotazione originaria nell’etere della virtualità, sulla condizione umana che di virtualità sembra vivere, soprattutto da un anno a questa parte, sulla poesia, sulla letteratura, sugli «acrobati del tempo», ho provato a discutere con Antonio Pascale. E l’ho fatto partendo dalle sue parole, quelle scritte esattamente un anno fa. Ne è nato un ritratto, un’istantanea sul nostro tempo fatto di incertezze e fragili equilibri.




Circa un anno fa, in un articolo per Il Post, ti chiedevi: «noi uomini siamo il problema o la soluzione?». Un anno dopo, quale risposta daresti alla stessa domanda?

Né l’uno ne l’altra, o meglio in parte problema in parte soluzione. Allora, un anno fa, riflettevo, prendendo come spunto il lockdown, su questo tema: da una parte ci accusiamo continuamente di danneggiare il creato dall’altro vogliamo un mondo migliore. Che tradotto significa un mondo in cui 8 miliardi, e fra poco 10 miliardi di cittadini, abbiano la loro quota di benessere, un arco di pace che copre più generazioni, cibo in abbondanza, consumi, viaggi. Ecco, questo mondo, in parte, lo stiamo ottenendo, l’aspettativa di vita è alta in quasi tutto il mondo (semmai c’è un problema di invecchiamento della popolazione), la mortalità infantile ha cifre bassissime (tranne in alcune aree povere del pianeta), la mortalità delle donne per parto è bassissima (tranne in alcuni Stati Africani e in alcune regioni del pianeta molto povere), su otto miliardi di persone, gli affamati sono 800 milioni, riusciamo a produrre di più con meno risorse, viviamo in un’epoca di pace e le disuguaglianze solo alte all’interno di alcuni Stati, ma tra gli Stati sono più basse (segno forse di una distribuzione di ricchezza). Ecco, queste cose costano. Ci vuole energia per migliorare ancora le cose e le transizioni energetiche non sono velocissime, anzi, a tutt’oggi per fare energia pulita utilizziamo fonti fossili. La sensazione è che il benessere non porta riflessioni in tal senso, ma solo protezione del proprio ristretto habitat. Quindi ragioniamo su piccola scala, e con arco di tempo limitato e di tanto in tanto ci sfoghiamo: siamo i distruttori del pianeta. Insomma, il problema vero è che siamo troppi e siamo troppi perché moriamo di meno, sono stati fatti notevoli passi in avanti (medicina, antibiotici, migliore alimentazione), quindi la nostra impronta ecologica si fa e si farà sentire. Che vogliamo fare? Abbassare il tasso di natalità al di sotto dell’indice di sostituzione (come in Italia) e quindi lentamente andarsene, smettere con la riproduzione? Oppure vivere al meglio i nostri giorni, collaborando e aiutandoci, sostenendoci? Se siamo un problema dobbiamo ammettere che lo siamo non perché distruggiamo, ma anche perché creiamo posti migliori dove vivere e appunto vogliamo vivere e siamo in tanti a volerlo fare. Se siamo la soluzione, dobbiamo fare in modo di rendere più sostenibili le nostre scelte sapendo che queste comunque avranno un peso, un’impronta ecologica: la perfezione e la purezza non esistono, vivere significa imparare a morire (cioè, non credersi speciali) crescere significa accettare le responsabilità.

 

Di mondo senza uomini, di mondo eterno, ne parla André Malraux nella sua celebre opera La condizione umana. Il libro è l’occasione per riflettere sull’incomunicabilità tra gli uomini, l’impossibilità di entrare in relazione con l’altro (e in questo ritroviamo Camus, ritroviamo Gide). Toccare il fondo dell’esistenza umana, sondare l’insondabile, sentire la vita per dare un nome all’indicibile: questo sembra suggerire Malraux senza comunque dare risposte definitive. Agamben dice che «la poesia si sostituisce in extremis alla filosofia nel punto in cui questa fallisce di fronte al compito di un’esposizione dell’indicibile». Pensi che le parole Agamben sulla poesia (e la parola poetica) possano dare una risposta alla sofferenza umana di cui parlava Malraux?

Con molta franchezza: non so cosa significhi indicibile. Mi sembra una parola ameba, di quelle che fanno sembrare intelligente chi la pronuncia e quelli che ascoltano, ma che non aiutano a descrivere situazioni e contingenti. Non credo nemmeno all’inconscio, quindi toccare il fondo, nel senso di arrivare a un punto oscuro e rivelatore, è una pratica culturale che ha i suoi aspetti simbolici ma per me non istruttivi. Credo che abbiamo una mente piatta, il cervello altro non è che un gran improvvisatore, bravo a raccontare storie e a far tornare elementi che non tornano (non facciamo altro che raccontarci, confabulando con noi stessi, storie che ci definiscono). Spesso nella realtà ci sono anche gli altri, e gli altri leggono in modo diverso quello che diciamo e allora noi ci rendiamo conto dei buchi della narrazione. Ma i buchi non rappresentano l’inconscio, almeno non nel senso classico del termine, sono solo non detti o cose dimenticate perché fanno male oppure creano problemi. Qui possiamo fare due cose, riconoscere i suddetti buchi e con onestà lavorare per migliorarli o trovare giustificazioni e pezze. Dipende da noi, dai momenti, dagli stati d’animo e dalle mille facce dell’improvvisazione. La condizione umana, poi, per me, altro non è che TMT Terror Management Theory. L’antropologo culturale Ernest Becker fu uno dei primi a pensarci (già nel 1973, con il libro The Denial of Death). Gli umani – scrisse- sono umani perché in grado di cogliere l’inevitabilità della morte. Un bel guaio, perché nessuno in questo campo sa davvero nulla e mai sapremo nulla. Per forza sale l’ansia. Metti poi che la morte è nella nostra scaletta, può arrivare in momenti inaspettati e casuali, capite perché la maggior parte di noi trascorre il tempo (e spesso spreca energia) per spiegare perché si muore, o per prevenire o procrastinare la morte. O costruire strutture narrative che ci confortano: non soffrirai, perché un giorno scoprirai il senso di tutto, la ragione del tuo travagliato cammino: storie con il loro effetto placebo. Un cosa antica: chi è stato il primo uomo che ha seppellito un suo simile? E perché? Perché non voleva vedere il suo ghigno cadaverico? Perché ha avuto paura che quell’essere, ora steso per terra e poco prima affianco a te, potesse rialzarsi e spaventarti? Perché in quel cadavere scorgiamo la nostra stessa vera natura? O forse puzzava, e allora meglio seppellirlo, o forse la vicinanza con i morti portava infezioni? Quello che è sicuro è che durante il Paleolitico superiore, queste pratiche di sepoltura non sono ovvie, veloci, copri con un po’ di terra, e via. I morti sono vestiti, resi belli, decorati con migliaia di perline. C’è sempre il cibo nel tauto, quindi si immaginava, si credeva che fosse una morte apparente, il nostro si sarebbe svegliato in qualche luogo o sarebbe passato in un altrove e in ogni cosa il cibo era lì, con le giuste calorie. Dunque, per far fronte alla suddetta onda ansiogena che sale su, e dai tempi ancestrali, cerchiamo rimedi: l’autostima per esempio (cazzo, ci sono, valgo, conto, faccio un discorso motivazionale e ti faccio vedere che vittoria raggiungo), oppure le regole: siamo qui per uno scopo, lavorare per l’aldilà. Poi è ovvio, sono storie che il nostro cervello, improvvisatore com’è, mette in piedi, ma è un attimo e l’autostima o le credenze religiose o gli altri valori, da strumenti protettivi (si selezionano perché garantiscono la sopravvivenza) diventano insopportabili rotture di coglioni, nonché fonte di disagi personali, sociali e problemi vari: e allora parliamo di condizione umana e indicibile.

 

Bataille nell’opera L’Erotismo dice che la poesia, citando i famosi versi di Rimbaud, «conduce al punto stesso cui porta ogni forma di erotismo, vale a dire all’indistinto, alla confusione degli oggetti distinti. La poesia ci conduce all’eternità, essa ci conduce alla morte, alla totalità: la poesia è l’eternità. E’ il mare convenuto col sole» (C’est la mer allée / Avec le soleil). Anche qui, se vogliamo, ritroviamo l’esposizione all’indicibile di Agamben.

Non lo so, la poesia è di quelle cose meravigliose perché ci inducono al silenzio.

 

A proposito di Rimbaud. Paul Valery decantava l’intensità dei suoi versi in grado di guidarlo (insieme ad altri poeti) oltre i confini del linguaggio poetico, ove si scorge l’indicibile. E’ sul piano della parola poetica che possiamo toccare il fondo dell’esistenza umana, risolvendo i limiti dell’incomunicabilità per (ri)trovare il nostro posto nel mondo e sentire, di nuovo, come la prima volta, la vita?

Vuoi dire (perché se è indicibile non possiamo dir nulla) che l’arte è tutto quello che ci fa sentire la vita in modo più intenso, anche perché, se un artista è bravo descrive il mondo, usa la pratica dello straniamento? Cioè, ci fa vedere le cose usuali come se fossero viste per la prima volta? Se è così, sono d’accordo. L’arte può contribuire a fondare un’arca di Noè, con tutti i ricordi e le descrizioni del mondo visti come se fossero nuovi elementi. Li analizzi, rifletti e ti senti protetto, quasi come se avessi più tempo.

 

Uomo, ambiente, tempo, radici, memoria. Qual è il rapporto tra queste parole e i tuoi libri, i seminari, i convegni e quale di queste parole hanno maggior rilievo nella tua vita?

Il rapporto è questo: radici (quelle cose che ci hanno formato) ambiente (quello che ci ha costretto o a saldare le radici, le convinzioni o ad allargare l’areale radicale, quindi a cercare altro), memoria (identità e anche qui è una potenzialità definirsi e un limite, perché i confini sono fatti per circoscrivere ma anche per avere una base sicura dalla quale gettare ponti) e sopra ogni cosa, il tempo e aggiungerei caos.

 

A quali scrittori (e quindi a quali opere) ti senti maggiormente legato?

Facciamo che te ne cito tre. Iliade (perché è un’indagine sulla prima emozione umana, l’ira e le sue declinazioni, tra cui, dopo l’ira, la pace), The Elephant Man di David Lynch, perché è un meraviglioso saggio sullo sguardo e sui limiti dello sguardo (e lo sguardo è il nostro strumento privilegiato per conoscere e per accusare) e una ninna nanna qualunque, perché probabilmente è stata la prima forma d’arte che i sapiens hanno prodotto per calmare l’ira, la rabbia, cercare la pace e uno sguardo più sano.

 

 

Antonio Pascale è scrittore, giornalista e saggista, autore televisivo. E’ ispettore agrario Mipaaf. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, Il Post, Il Foglio, lo Straniero, Limes, Mind. Tra le sue pubblicazioni La città distratta (Einaudi, 2001), Passa la bellezza (Einaudi, 2005) S’è fatta ora (Minimum Fax, 2006), Pane e pace. Il cibo, il progresso, il sapere nostalgico (Chiarelettere, 2012), Le Attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013), La manutenzione degli affetti (Einaudi, 2014), Le aggravanti sentimentali (Einaudi, 2016).

Intervista a Maria Grazia Calandrone

Nell’economia della parola, limpida, diretta, acuminata, Maria Grazia Calandrone svela l’immensità della vita consegnandoci immagini capaci di restare nella memoria del lettore per la loro forza e la loro energia. Lo abbiamo visto nella poesia e nella narrativa, in quest’ultima un lirismo che risente della voce poetica. Conversare con Calandrone delle vertigini della lingua è un piacere che va al di là della pura immersione nel fatto linguistico. E’ conoscenza, è confronto, è scavo nella bellezza della parola scritta.

Ho avuto occasione di incontrare Maria Grazia Calandrone nell’ultima edizione di Umbria Green Festival nella serata dedicata a Andrea Zanzotto. Con lei, è stato tratteggiato un dipinto del poeta senza tempo di Pieve di Soligo, uomo  continuamente proteso verso una dimensione altra. Lo scorso anno è stato dedicato al centenario della nascita di Zanzotto e noi abbiamo voluto ricordare, nuovamente, questo poeta della parola attraverso la voce di Calandrone che della parola ha fatto la sua ragione di vita.

 




La poetica di Andrea Zanzotto sembra essere ancorata alla memoria da cui trae forza per guardare al futuro. La sua parola è protesa in avanti. Come si sposa la tua ricerca letteraria a quella di Zanzotto?

Zanzotto mi sembra uno di quei poeti che vive nel senza tempo, tutto quello che attinge dal passato lo rilancia. È onnivoro e onnicomprensivo e in questo, con totale immodestia, dico un po’ somiglia a me, anche io sono onnivora e onnicomprensiva e quello che mi affascina di lui è il suo scavo nel linguaggio cioè il suo guardare le parole come se fossero degli oggetti. Questa è una cosa che mi sembra straordinaria della poetica di Zanzotto. I testi scelti per l’omaggio a Zanzotto (serata Iperzanzotto all’anfiteatro a Carsulae in occasione di Umbria Green Festival 2021, ndr) sottolineano proprio questo: le parole di Zanzotto sono sassi in un campo d’erba, cose solide, sono anche oggetti naturali, è come se lui avesse una tale fiducia nel linguaggio da considerare le parole oltre che un mezzo di trasporto proprio degli oggetti della natura e questo rappresenta per me una lezione straordinaria.

 


Andrea Zanzotto e Dino Campana. Nel 2019 è uscita per Ponte alle Grazie l’antologia da te curata e dedicata a Dino Campana, Preferisco il rumore del mare. Anche Andrea Zanzotto si è accostato a Dino Campana (Il mio Campana, a cura di Francesco Carbognin, Clueb, 2011). Cosa ci puoi dire di loro due e di questa comune immersione (tua e di Zanzotto) nella poetica di Campana?

Zanzotto e Campana. Li accomuna una follia sana che porta ad essere entrambi assolutamente eversivi nel linguaggio. Su questo apro una parentesi per spiegare che con Campana c’è stato un grande fraintendimento sulla sua figura umana, perché Campana era semplicemente un ribelle che non si adattava all’ipocrisia piccolo borghese del suo paese, quindi, è stato condannato come se fosse pazzo ma non era pazzo. È stato etichettato come tale, allo stesso modo di Alda Merini… insomma tutte queste etichette che vengono date alle persone che si discostano in un qualche modo dalla maggioranza. Zanzotto è differente nel senso che lui ha sofferto del suo essere laterale rispetto all’esistenza quindi un aspetto che lui attribuiva a se stesso (a differenza di Campana che ne faceva un vanto). Per Zanzotto questo suo sentire era vissuto come una sofferenza ma nel linguaggio ha osato di più di quanto abbia osato Campana. Dino Campana ha osato nel ritmo mentre Andrea Zanzotto ha frantumato la lingua, l’ha fatto esplodere e quindi si può dire che ha riversato tutta la sua parte di follia asmatica nel linguaggio.

 


Leggendo Andrea Zanzotto mi accorgo di essere difronte a una lingua che si dissolve nel corpo.

La lingua di Zanzotto è una lingua fisica, fisica nel senso scientifico e nel senso corporale. È una lingua che diventa materia quindi in questo senso si può anche intendere che la sua lingua si scioglie nel corpo nel senso che è corpo che diventa lingua ed è lingua che torna a essere corpo. C’è sicuramente, per il principio dei vasi comunicanti, una comunicazione continua tra il linguaggio e la materia all’interno della poesia di Zanzotto.

 


Quando Andrea Cortellessa ti ha coinvolta in questo progetto di commemorazione di Andrea Zanzotto cosa hai pensato e come hai vissuto questo i momenti che hanno preceduto la serata di Iperzanzotto in relazione ai tuoi progetti di scrittura attuali e futuri?

Tendo ad occuparmi di quello che mi sembra bello e la lingua di Andrea Zanzotto mi sembra veramente una finestra sul mondo di conoscenza continua e di continua scoperta. Quando dico che è una scoperta intendo proprio il fatto di aver letto più volte i testi scelti per l’omaggio a Zanzotto e ogni volta scopro qualcosa di nuovo, ogni volta sono diversi. La poesia di Zanzotto è una poesia metamorfica è inesauribile e questa è una qualità precipua della sua scrittura. E mi sono sentita orgogliosa e onorata di essere stata coinvolta in questo progetto.

 


Se ti chiedessi di accostare un quadro (o un pittore) alla poesia di Andrea Zanzotto quale (o chi) sceglieresti?

Penso a J. H. Füssli e F. Bacon per la figura cambiata dalla contemporaneità, la figura sottoposta anche ai suoi incubi, la figura trasfigurata dalla storia. C’è una forte malinconia in Zanzotto, la malinconia del tempo perduto però rilanciato, come dicevamo al principio, in un tempo futuro. A questo penso coniugando la poesia di Zanzotto a Füssli e Bacon. Poi, restando sempre nel campo dell’immagine, non si può non ricordare che lui ha lavorato con Fellini. Tra i brani che ho scelto per la serata Iperzanzotto c’è un pezzo rappresentativo, quasi pornografico, omaggio al corpo femminile quindi un testo che sembrerebbe discostarsi da quanto sto affermando.

 


Perché hai scelto proprio questo brano?

La scelta è motivata dalla questione delle donne afgane. Mi piaceva fare un omaggio per la voce di Andrea Zanzotto, un omaggio al femminile. Gli altri tre brani sono una filastrocca da Dietro il paesaggio di un Zanzotto trentenne che è già stato attraversato dalla morte, dalla perdita delle sorelle e la sua malinconia è attraversata dalla rima, mi piaceva infatti mostrare Zanzotto in rima. Concludo con due testi da Il galateo in bosco (nel mezzo ci sarà anche qualcosa di mio come mi è stato chiesto da Andrea Cortellessa) che rappresentano il puro piacere dello scavare nella lingua. Quindi iniziamo con un omaggio al femminile e concludiamo con un omaggio all’esistenza.

 


Maria Grazia Calandrone è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice Rai, scrive per «Corriere della Sera» e tiene laboratori di poesia nelle scuole e nelle carceri. Ha pubblicato numerosi libri di poesia tra cui: La scimmia randagia (Crocetti 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier 2005), La macchina responsabile (Crocetti 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle 2010), La vita chiara (Transeuropa 2011), Serie fossile (Crocetti 2015 – premi Marazza e Tassoni, rosa Viareggio), Gli Scomparsi (Pordenonelegge 2016 – premio Dessì), Il bene morale (Crocetti 2017 – premi Europa e Trivio), Giardino della gioia (Mondadori 2019). Nel 2021 Calandrone pubblica Splendi come vita (Ponte alle Grazie), semifinalista al Premio Strega 2021, nel 2022 pubblica Dove non mi hai portata (Einaudi), finalista al Premio Strega 2023, e nel 2024 Magnifico e tremendo stava l'amore (Einaudi).