domenica 31 marzo 2013

Quadri che vanno ascoltati. L'arte di Duy Huynh.










Ci sono quadri che vanno ascoltati. Hanno un'anima e parlano di cose buone, volano sui binari della fantasia, si nutrono d'immaginazione, possono essere tagliati, assemblati e nuovamente distrutti in una danza senza precedenti, in cui l'artista sembra ritrovare la forma e la definizione della sua stessa arte nel suo contrapposto.

Ascoltando i quadri di Duy Huynh ho ripensato a Chagall e Kandinskijalla forza delle contrapposizioni insita nell'arte dell'uno e all'astrattismo artistico dell'altro. Ho ripensato anche a delle musiche, alcune ascoltate di recente, come le Variazioni Goldberg di Gleen Gloud (c'è il vigore dei pittori appena citati e anche la serenità d'animo dei dipinti di Duy Huynh che si trasforma, talvolta, in un'aggressività lucida e palpitante, un dolore silente e asfissiante), altre invece hanno accompagnato alcuni momenti della mia vita, alcuni viaggi come Comptine d'Un Autre Été di Yan Tiersen, e alcuni traslochi, come Le onde di Ludovico Einaudi.

Quando l'arte presuppone un'improvvisazione di idee, inatteso canto dell'anima che è la natura dell'arte stessa, allora significa che, dopo un lungo viaggio, l'arte è riuscita a scalfire anche la più dilaniante delle nostalgie, facendo vibrare l'aria dei suoi colori. 

Variazioni Goldberg di Gleen Gloud


Comptine d'Un Autre Été di Yan Tiersen


Le onde di Ludovico Einaudi

Diario della Domenica: Pasqua, Auguri e Sogni

Mi pare quasi di volare leggera come sono.
Cesare Zavattini

Fonte: Facebook

Ha una sua solitudine lo spazio. Emily Dickinson.




Ha una sua solitudine lo spazio.

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte,
eppure tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.

Emily Dickinson

giovedì 28 marzo 2013

Nessuno sa di noi. Simona Sparaco.



Questa recensioni è uscita sulla rivista Letteratu.it

Le parole sono come pietre. Nessuno sa di noi (Giunti Editore) di Simona Sparaco, conta più pietre di quanto si possa immaginare. Scivolano su un piano inclinato, si frantumano cadendo a terra, definiscono l’incertezza e il senso di inadeguatezza, il disagio e l’inquietudine che sostengono la realtà, dandole forma. Chiudere gli occhi e allungare le mani. Il gioco della cieca, lo si faceva da bambini quando le disillusioni erano sogni e le disperazioni speranze. E’ così che ci si potrebbe avvicinare a un libro come questo, candidato al Premio Strega 2013, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro.

mercoledì 27 marzo 2013

Alberto Seveso: colori, arte e poesia

Alberto Seveso, milanese d'origine, vive e lavora a Portoscuso, in Sardegna. Mescola inchiostro e acqua, ma la sua produzione è variegata. Qui vi propongo un assaggio di ciò che troverete sul suo sito.












Fonte:  burdu976.com

lunedì 25 marzo 2013

La voce di Francis Scott Fitzgerald




Ho iniziato a leggere Hemingway da ragazzina e devo dire che non ci capivo molto, all'epoca. Però non riuscivo a distogliere gli occhi da quei dialoghi levigati e bruschi al tempo stesso, dalla semplicità delle sue parole, dal suo mondo così lontano e diverso dal mio, non riuscivo a distogliere gli occhi dai nomi. Come chiamava le cose, non come le descriveva. Era tutto quello che alla letteratura italiana mancava.

E quindi anche se ero poco più di una bambina e il mio mondo era differente da quello che raccontava Hemingway, continuai a leggerlo, il fatto di non capirci molto non mi allontanava dai suoi libri, al contrario ne ero ancor più affascinata. Con gli anni ho ritrovato molte delle vibrazioni di questo grande e unico scrittore in altri autori americani che, sicuramente, si sono formati proprio sui suoi libri. 

All'epoca andavo spesso in biblioteca, si può dire quasi ogni giorno. Un pomeriggio di grigiore padano, con la stanchezza nelle ossa, mi venne consigliato un libro che, secondo la bibliotecaria, mi sarebbe piaciuto molto dal momento che divoravo Hemingway. Si tratta di Tenera è la notte. Non sapevo chi fosse Francis Scott Fitzgerald e con l'inconsapevolezza e l'ingenuità dei miei undici anni iniziai a leggere quel libro trattandolo come fosse la Bibbia. Da allora penso di averlo riletto almeno cinque o sei volte. 

Ho conosciuto Fitzgerald attraverso i suoi libri. E devo dire che è stato uno degli incontri più belli della mia vita. Credo che se fossi nata tra l'Ottocento e il Novecento negli Stati Uniti, avrei sicuramente fatto di tutto per poterlo incontrare almeno una volta. Sono sempre stata attirata da uomini come lui, misteriosi, travolgenti, con una vita incasinata e tante ferite nel cuore, l'impossibilità di scindere il privato dal pubblico, la necessità di parlare di un malessere generale, di una disperazione collettiva, quella di un'intera generazione, la certezza di essere frainteso, capito a metà. 
Un tipo di uomo così lo sento molto affine a me, per come sono fatta e per come vorrei essere.   

Aveva ragione la biblotecaria (è andata in pensione qualche anno fa, che donna!), ho amato Fitzgerald fin dall'inizio. Se tra le pagine di Hemingway ho scoperto una scrittura semplice e vibrante, tra quelle di Fitzgerald ho ritrovato quelle stesse vibrazioni amplificate, esasperate da una disperazione profonda, da un'angoscia mascherata da perbenismo.

E' facile considerare Fitzgerald come lo scrittore della Jazz Age, smorzare le potenzialità della sua scrittura concentrando l'attenzione del pubblico essenzialmente sulla sua vita disordinata e difficile. Persino Woody Allen non ha saputo resistere e, in Midnight in Paris, lo ha rappresentato con un bicchiere in mano accanto a una Zelda alticcia nel bel mezzo di una festa in cui tutti sembrano divertirsi tranne loro stessi. 

E così, di nuovo, sembra spostarsi l'attenzione dallo scrittore e dalla sua produzione letteraria al personaggio, in particolare al periodo che lo ha visto unito a Zelda (nonostante i personaggi femminili delle sue opere e di molti racconti siano ravvisabili in Ginevra, ragazza di buona famiglia residente a nord di Chicago, che lo aveva respinto in quanto appartenente a un ceto sociale inferiore). Ecco che i due incarnano l'aspetto di giovani spericolati le cui sfortune si abbattono sulle loro vite mondane.  

Tuttavia è impensabile considerare la materia letteraria di Fitzgerald senza tenera conto della sua vita. Scott Donaldson è riuscito a dare lustro alla produzione dello scrittore senza con ciò relegarlo in situazioni stereotipate. Nel saggio Fool For Love, Donaldson spiega come Fitzgerald, spinto dalla volontà e dal bisogno di piacere agli uomini, tralascia ciò che lui vuole veramente. "I suoi compagni di Princeton lo consideravano troppo curioso e frivolo. Il padre di Zelda lo riteneva inaffidabile. Ernest Hemingway, il più vicino degli amici, alla fine lo tratterà con disprezzo". Questo emerge in modo lampante soprattutto nel romanzo Tenera è la notte in cui Diver, costretto a piacere a tutti coloro che lo circondano, diventa inconcludente lavorativamente parlando, e arriva a distruggere la sua carriera.

"Fu in quell'atmosfera di disgusto per la volgarità borghese della pseudo-ricchezza da un lato e per l'incapacità e la debolezza della pseudo-aristocrazia dall'altro che Scott crebbe, a disprezzare e insieme invidiare i ricchi e gli aristocratici; di fronte agli aristocratici provando insieme invidia per le nobili origini e disprezzo per l'inefficienza, e di fronte ai ricchi provando insieme disprezzo per la volgarità e invidia per l'efficienza e l'energia" (Fernanda Pivano, La balena bianca e altri miti, Milano, il Saggiatore, 1995).

Come afferma Fernanda Pivano, la scrittura di Fitzgerald è una continua denuncia che si esplica nella sua stessa vita, "di giovane respinto dalla fidanzata per mancanza di soldi con una ferita che non si sarebbe rimarginata mai più, e di marito che per guadagnare quei soldi sprecò, spesso consapevolmente, il suo talento scrivendo racconti da poco." 

Con Il Grande Gatsby, portato adesso al Festival di Cannes da Leonardo di Caprio, Fitzgerald viene riproposto, rivisto, messo nuovamente in discussione e con lui le speranze, le illusioni e le disillusioni di un'intera generazione, quella che l'amico Hemingway chiamò, giustamente, perduta. 

venerdì 22 marzo 2013

Oltre. Sui viaggi, l'Africa e il Burundi

Doriano Modenini

Da quando abito a Roma ho viaggiato molto. E ho capito che avrei voluto continuare a farlo, che avrei coinvolto mio figlio, che sarebbe stata un'esperienza unica, stupefacente, una continua scoperta. Non ho mai scritto una riga mentre viaggiavo, segnavo le città, le vie, i musei, i quadri, le librerie, i luoghi dove dormivo, quelli dove mi fermavo anche solo per qualche ora. Da quando la mia casa si è trasformata in un agglomerato di scatole, la necessità di catalogare ciò che librerie e cassetti contengono è un'urgenza più che un diletto. Eppure è proprio in uno di questi momenti che ho scoperto un taccuino risalente a un lungo viaggio per l'Europa nel corso del 2010. Ho lasciato tracce di questo viaggio tra le pagine del blog, su twitter, in un paio di occasioni anche su tumblr. Però non ne ho mai parlato e non lo farò di certo adesso.

Solo che ho riletto, questa mattina, una delle ultime interviste a Tabucchi sul suo libro Viaggi e altri viaggi (tra l'altro ne consiglio la lettura, anzi partite proprio da questo libro per conoscere l'uomo e lo scrittore pisano), poi ho letto un articolo su Artribune scritto da Aldo Premoli sui viaggi, la cultura e la ricerca scientifica, sugli investimenti, le accelerazioni e i rallentamenti. Un articolo che rispolvera concetti quali qualità, fatturato, mercato.

E mentre procedevo nella lettura di altri articoli su Artribune, una rivista che crea "connessioni e sinapsi attive per far capitare le cose, non per parlarne" (Cristiano Seganfreddo), ho ripensato a un viaggio in Africa, precisamente in Burundi e Rwanda, nel 2009. Ho ripensato a quanto ero poco preparata all'Africa, alle sue meraviglie, alle sue disillusioni, alle resistenze. Alla sopravvivenza, a quanto possa diventare violenta, tragicamente violenta, una vita basata sulla sopravvivenza. 

Dalla situazione scolastica frammentaria (da approfondire l'istruzione elementare che sembrerebbe essersi risollevata con l'abolizione delle tasse dal 2005 per i frequentanti, alle difficoltà economiche, igienico-sanitarie fino ad arrivare alla guerra civile finita, dopo tredici anni, nel 2006 (ma mai conclusasi del tutto): il Burundi  mi è apparso un Paese pieno di contraddizioni ma non privo di fascino. Sono rimasta folgorata da quanta Africa ho visto e conosciuto.

Durante la mia permanenza in Burundi ho scritto poco, quasi niente. Come al solito però ho annotato i nomi dei quartieri di Bujumbura (mi trovavo a Kamenge), dei villaggi limitrofi, delle persone incontrate, qualche numero di telefono, mail e brevi annotazioni su ciò che provavo, come mi sentivo. Non sono mai stata così bene come in quel periodo. E non è perché in Africa ho sentito chissà quale richiamo atavico, tutte quelle stronzate sulle proprie origini, e le radici, e fare del bene, aiutare i poveri... la casistica potrebbe ampliarsi sempre più. Probabilmente il mio benessere era qualcosa di molto egoistico ma che, comunque, si completava, si nutriva e si sentiva appagato solo in quella situazione.

Non ho più provato le stesse sensazioni. E non le proverò più.
Oggi, in questo marasma (di pensieri, riflessioni, ricordi) che ha fatto nascere questo post inconcludente e liquido come mi sento talvolta io, voglio regalarmi e condividere con voi alcuni dei momenti vissuti con un video, questo http://www.youtube.com/watch?v=x6FRSA56iJU


Street Art: Graffiti e Letteratura

Antoine de Saint Exupèry

William Blake


Edgar Allan Poe

Lewis Carroll

martedì 19 marzo 2013

Pop Surrealism interpretato e illustrato: intervista a Paolo Pedroni




La prima volta che ho visto le opere di Paolo Pedroni è stato un pomeriggio di tre anni fa alla mostra Rock'n Dolls a MondoPop. Ricordo l'impatto che hanno avuto su di me le sue opere, la percezione di un mondo archetipico, un mondo tuttavia che acquista ancor più valore e fascino proprio perché celato da un immaginario simbolico che sembra voler richiamare l'attenzione dell'osservatore invitandolo a interpretare (piuttosto che spiegare) la meraviglia e la scoperta insita nell'arte di questo giovane artista.

Come per gli scrittori, da un po' di tempo a questa parte, immagino gli artisti che stanno dietro alle tele e sono rimasta piacevolmente sorpresa nello scoprire che Paolo Pedroni è un artista giovane (classe  1983), originario di Brescia ma legato alla città di Roma in particolare alla galleria MondoPop. Dopo aver frequentato il liceo artistico si è diplomato in Interior Design a Milano. Ha quindi iniziato a muovere i primi passi nel campo dell'architettura senza smettere di nutrire interesse e passione per la pittura.

Cosa si cela dietro la tua arte? 

L’intento non è quello di celare nulla ma piuttosto quello di illustrare quanto più possibile di me stesso. Per natura sono piuttosto riservato ed il disegno è da sempre per me un mezzo per esprimermi.

E' esatto affermare che le tue opere  fanno riferimento al Pop Surrealism? E in che misura?

Si direi che è corretto, a dire il vero fino a pochi anni fa ignoravo l’esistenza del Pop Surrealism ma una volta scoperto è stato come un’illuminazione. Fin da subito mi sono ritrovato nell’immaginario di questa corrente e da quel momento non son più riuscito a farne a meno.

Come in molti artisti pop surrealisti c'è un'apparente contraddizione tra i volti infantili ritratti e l'atmosfera inquietante nella quale sono calati. Cosa ti senti di dire in merito? 

Per quanto mi riguarda, quando ancora non conoscevo il Pop Surrealism, il mio “problema” nel disegnare era proprio la difficoltà di coniugare questi due mondi che per me erano completamente separati; due mondi che hanno sempre fatto parte del mio immaginario ma che non sapevo come fondere in un'unica cosa.

Hai in mente una storia prima di disegnare, quindi c'è un progetto dietro ai tuoi quadri, oppure è la storia stessa, il personaggio che ti guida nell'elaborazione del quadro? 

Il più delle volte ho delle vere e proprie visioni, dei “flash” che arrivano inaspettatamente durante la mia quotidianità. Basta il giusto imput per immaginare una situazione o un personaggio sul quale cominciare a ricamare una storia e definire i particolari cosi da poter dar concretezza e forma ad un’idea.

Chiedi opinione a qualcuno una volta finita un'opera oppure segui il tuo istinto?

Certo. Per me è molto importante sapere cosa viene percepito dall’altra parte. A volte può capitare che l’impressione del fruitore non coincida con la mia ed è interessante discuterne, per me è un arricchimento, tengo sempre presenti le critiche senza però diffidare del mio istinto.

Quando hai realizzato la tua prima opera e cosa hai provato? E alla tua prima mostra?

Beh difficile dire quale sia la mia prima opera, ad ogni opera ho sempre più chiaro il percorso da seguire, un po’ come se fosse sempre un nuovo inizio.
La prima mostra è stata “Rock’N Dolls” presso la Galleria MondoPop in Roma, emozionante, stressante, esaltante, la cosa che ricordo di più è il senso di incredulità nel vedere le mie stampe su quella parete. Stupendo!

Ci sono libri o canzoni che ti hanno ispirato? 

“…i’m gonna drink my tears tonight… i’m gonna drink my tears and cry…”
direi di si… possono bastare pochi versi… in linea di massima è più facile che mi ispiri una canzone o un film piuttosto che un libro.

Mark Ryden, Robert Williams, Shag, Gary Baseman, Todd Schorr, Glenn Barr. Tra i fondatori del pop surrealismo di stampo statunitense c'è un'artista che ti ha ispirato? Per quale motivo?

Uno su tutti Mark Ryden, senza dubbio se non ci fosse stato lui sicuramente ora non starei rispondendo alle tue domande. 

E in generale cosa pensi del Pop Surrealism?

Penso che sia un grande, grandissimo contenitore di talenti, forse l'unica pecca è la forte caratterizzazione del suo immaginario. Tutti, me compreso ovviamente, abbiamo dei riferimenti chiari e precisi che ci inducono a seguire spesso la stessa direzione.
La difficoltà sta nel cercare di rendersi originali, unici e nel riuscire a comunicare qualcosa nonostante le similitudini tra gli stili.






Vi invito ad ammirare le sue opere. Il sito dell'artista è http://www.paolopedroni.com

domenica 17 marzo 2013

Tutto pronto per John Cheever.



C'è un'immagine di Roma che non potrò mai scordare. Mi trovavo a Battistini, una palazzina di due piani, solo quattro famiglie. La finestra della mia camera si affacciava sulla campagna, ettari di terra uguali, i confini delineati dai pini marittimi, al calar della sera si intravedevano macchie grigie muoversi uniformi per le colline. Non ricordo il nome della via, una strada sterrata che sfociava su una provinciale, esattamente dall'altra parte vi era la fermata dell'autobus che portava alla metro A. L'attesa era estenuante. Alle mie spalle il guard rail, oltre il quale la terra scivolava in una profonda depressione per poi risalire e colorarsi di varie tonalità di grigio. Un altro quartiere, altre finestre, altre voci, altri volti, altri tetti. Ricordo soprattutto una manciata di tetti che, da lontano, sembravano sovrapporsi gli uni agli altri come pezzi di un puzzle disposti in modo disordinato, senza badare alla logica del disegno. 
Ed è questa l'immagine che non riesco a scordare.   

In quel periodo leggevo i racconti di John Cheever (una vecchia edizione della Garzanti, talmente vecchia che alcune pagine non solo erano ingiallite ma odoravano di naftalina. Dio solo sa che viaggi ha fatto quel libro!). O almeno provavo a leggere. Perché, a dire il vero, anche quei racconti mi sembravano un po' disordinati, come l'immagine dei tetti di Roma. Sembrava che non ci fosse una logica e che le frasi fossero assemblate per puro gusto estetico e non per una ragione precisa. La storia, poi, sembrava mancare. 

Quegli stessi racconti li ho presi in mano oggi (edizione Feltrinelli e Fandango Libri), in questa domenica piovosa, tetra, silenziosa, quelle giornate che andrebbero buttate se non sapessi leggere e scrivere. Dicevo, ho ripreso in mano quei racconti e ora mi appare tutto così chiaro. La lingua levigata, asciutta, elegante. La costruzione narrativa vive un contrastato equilibrio tra inquietudine e saggezza, tra leggerezza e rivoluzione. 

Non si capisce fin dove finisce lo sguardo languido e spietato dello scrittore e dove inizia quello disilluso e realista dell'uomo. Da un po' di tempo a questa parte immagino gli scrittori che stanno dietro ai libri. Di John Cheever ho sempre avuto ben salda l'immagine di un ragazzo trasandato, con uno strano guizzo negli occhi.

Non ero pronta per Cheever, all'epoca in cui stavo a Battistini. Oggi sì. E mi commuovo a leggere la sua umanità e sincerità: "Questi racconti cominciano ai tempi del mio congedo dall’esercito, alla fine della Seconda guerra mondiale e sembrano a tratti storie di un mondo perduto per sempre, quando la città di New York era ancora illuminata dalla luce del fiume, e la radio del negozio di cancelleria all’angolo diffondeva il ritmo della band di Benny Goodman e quasi tutti andavano in giro con il cappello. Sono l’ultimo di una generazione di fumatori accaniti che al mattino svegliava il mondo a colpi di tosse, si sborniava ai cocktail parties e ballava danze fuori moda, ’Il pollo Cleveland’, attraversando l'Atlantico in piroscafo, colma di nostalgia per l’amore e la felicità: e i suoi Dei erano antichi come i miei e i tuoi, chiunque tu sia".

sabato 16 marzo 2013

Aqueous Electro.

Cosa si può fare con acqua, inchiostro e colore. Io ho provato a immaginarlo, ma qui c'è un fotografo  inglese, Mark Mawson, che ha trasformato la fantasia in realtà. Il progetto ha preso il nome di Aqueous Electro.