giovedì 31 gennaio 2013

Il cielo sopra Águeda






Installazione di ombrelli colorati ad Águeda (Portogallo).




martedì 29 gennaio 2013

Herta Müller, Il paese delle prugne verdi

Lola veniva dal Sud del paese e le vedevi addosso un ambiente rimasto povero. Non so dove, forse nelle ossa degli zigomi o intorno alla bocca, o in mezzo agli occhi. Una cosa simile è difficile da dire sia per un ambiente, sia per un volto. Ogni ambiente in paese era rimasto povero, così come in ogni volto. Ma l'ambiente di Lola, per come appariva nelle ossa degli zigomi, o intorno alla bocca, o in mezzo agli occhi, era forse più povero. Più ambiente che paesaggio.  
La siccità divora ogni cosa, scrive Lola, all'infuori delle pecore, dei meloni e degli alberi di gelso.
Ma non era l'ambiente secco a condurre Lola in città. Ciò che imparo è indifferente alla siccità, scrive Lola nel suo quaderno. La siccità non nota nulla, per quanto ne so. Nota solo cosa sono, quindi chi. Diventare qualcuno in città, scrive Lola, e dopo quattro anni tornare in paese. Ma non dal basso, lungo il sentiero polveroso, bensì dall'alto, attraverso i rami degli alberi di gelso.

Herta  Müller, Il paese delle prugne verdi




Herta Müller. Il paese delle prugne verdi




A Rovereto oggi non ci vado più. Eppure ogni tanto, quando ripenso al lago di Garda, a Riva, parte dei miei ricordi sono legati anche a Rovereto. Ed è lì che da anni una casa editrice, Keller editore, sfida la crisi che incombe anche e soprattutto sul mondo editoriale pubblicando libri piccoli, con copertine dalle tonalità pastello, una grafica essenziale e uno stile pulito. Come questo libricino. Il paese delle prugne verdi di Herta Müller. Accostarsi a un libro come questo significa affondare le mani in una narrazione lirica spesso arricchita da manifestazioni espressive che riflettono un'angoscia, un'inquietudine proprie dell'autrice.

Ambientato durante gli anni della dittatura di Ceauşescu, Il paese delle prugne verdi racconta l'amicizia tra la protagonista, l'io narrante della storia, e tre giovani coetanei. L'amicizia tra i quattro adolescenti,  in un momento che ha avuto gravi ripercussioni sulla storia odierna del popolo rumeno, si salda in seguito al suicidio di Lola, loro amica. Alcune "coincidenze" spingono i quattro giovani a indagare sul motivo dell'accaduto attirando, così, le attenzioni della polizia. E' una narrativa, quella di Herta Müller (vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura), sospesa tra passato e presente, tra ricordi di una vita che è stata e un presente segnato dagli stessi. Uno sguardo sul mondo privato dell'autrice, sulla tragedia individuale ma anche su quella collettiva causata dalla dittatura che ha lasciato segni nel popolo rumeno.  

Si sta col fiato sospeso, si percepisce la sofferenza taciuta, i segreti, il bisogno costante di libertà, quella libertà che i giovani protagonisti del libro tentano di costruire, celandola, elemosinandola senza tuttavia riuscire ad ottenerla. I soprusi e le umiliazioni di un potere che schiaccia e soffoca un'intera nazione lacererà anche i sogni di questi ragazzi, la cui sola colpa era quella di vivere. 
E' un libro difficile da leggere, così come difficile è affrontare la realtà che viene narrata. Perché di realtà si tratta. 

domenica 27 gennaio 2013

Pop Surrealism: Camilla D'Errico le nuove opere per Laminate Most Wanted

Camilla D'Errico. Vorrei condividere con voi le nuove opere dell'artista italo-canadese. Vi parlavo del pop surrealismo di Camilla D'Errico un anno fa proprio qui.






Fonte: laminatemostwanted.com


sabato 26 gennaio 2013

Da Calvino a Keret: per una scrittura di successo


Da piccola avevo un amico immaginario. Un senza nome che mi ascoltava, rispondeva, mi aspettava quando uscivo di casa per andare a scuola, a lezioni di ginnastica, oppure a catechismo. Al mio rientro lo trovavo addormentato sul letto. Allora aprivo piano l'armadio per non svegliarlo, mi mettevo il pigiama e andavo vicino a lui. Erano rare le volte che saliva in macchina per venire a scuola con me. Era bello avere qualcuno che mi aspettava e che perdeva tempo ad ascoltarmi. A volte i genitori si dimenticano che i figli vanno anche guardati negli occhi. E ascoltati. 
Quando ho capito che il mio amico Senza Nome era di troppo a tavola, quando i miei compagni di classe hanno iniziato a schernirlo ho pensato di lasciarlo andare. Avrebbe trovato sicuramente qualche altro amico cui dare la mano. Quindi ho iniziato a scrivere le cose che raccontavo a lui. E il mio amico Senza Nome ha assunto la forma di una pagina bianca. 

Sono cresciuta leggendo. La lettura mi ha portata alla scrittura. Ne parlavo qui. Sono cresciuta pensando di evadere leggendo e di scrivere per evadere. Le due cose si compenetrano, in che forma e in che modo non mi è dato sapere. Almeno per adesso. Quando ho scoperto Italo Calvino ho imparato ad apprezzare ancor di più la forza della parola (sull'argomento potete dare un'occhiata a questo post). "L'unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro". Questa è una sua frase alla quale sono molto legata tant'è che l'ho citata recentemente parlando proprio di scrittura, passioni e cose belle della vita. 

Altra puntata di Scrivere nel 2013. Per spiegare cosa significa la frase di Calvino riportata sopra mi sento di poter ripetere quanto detto alcune settimane fa: "scrivere la vita, le passioni, i sentimenti più aggrovigliati è cercare di cogliere uno sguardo fra mille sguardi, un modo di pensare altro, un punto di vista oltre quello che già conosciamo. E' gridare alla libertà. Questo e non altro è quello che ho cercato di fare da quando ho tra le mani questa miniera di pensieri e riflessioni, questo blog".  Aggiungerei, oltre al blog, tutto ciò che ho scritto, pubblicato e non, fino ad oggi, trattasi di racconti, romanzi, articoli di cronaca o di cultura, approfondimenti, dossier.  E a proposito di libertà scrivevo: "educare alla verità come garante della libertà significa educare a una specifica umanità e, quindi, alla crescita e alla forza umana di ogni singolo individuo (...)". 

Una delle cose che amavo fare da bambina, immersa nel piacevole tedio della pianura, era gettare sassi nel fiume e osservare il propagarsi dell'ondulazione dell'acqua. Potevo stare sulla riva anche tutto il pomeriggio fino a quando il tramonto non mi risvegliava dal torpore infantile. Non sono stata educata ai rapporti umani, forse è anche per quello che amo la solitudine tra le cose solo mie o tra le persone solo mie. E forse è anche per questo che trovo conforto tra le fitte trame formate dalle parole, tra gli intrecci casuali creati dalla forza della letteratura. Sono emozioni primitive che squarciano il cuore e colpiscono dove altri non hanno mai avuto il coraggio.  

Scrivere è mettersi le dita nel naso. Lo dice Etgar Keret e credo che mai nessuno abbia detto una verità così sfacciatamente spietata. "Anche se scrivere al bar suona romantico, avere altra gente attorno a te ti rende conformista, che tu te ne accorga o no. Quando in giro non c’è nessuno puoi parlare da solo o metterti le dita nel naso senza problemi. Scrivere è mettersi le dita nel naso, e in mezzo alla gente la cosa non viene naturale" (la traduzione è di Cognetti, l'intero articolo di Keret invece lo trovate qui). Quella di Keret è solo una delle dieci regole, se così le posso definire, che tracciano il cammino per una scrittura di successo. Keret parla anche dell'amore verso i personaggi descritti, del piacere della scrittura, delle svolte della trama, dello stile che ogni scrittore dovrebbe adottare, uno stile unico e, a suo modo, inimitabile. E alla fine Keret parla anche dell'anticonformismo e di quanto sia piacevole parlare da soli o mettersi le dita nel naso quando si scrive in totale solitudine. Questo decalogo l'ho appeso alla porta della mia camera da letto. Trovo che ci sia tutto quello che ho sempre fatto e tutto quello che non ho mai avuto il coraggio di fare.  

Le dita nel naso, ad esempio, è una delle cose che non faccio dai tempi della scuola materna. 

venerdì 25 gennaio 2013

Di cose perdute. Di cose ritrovate.


Con il passare del tempo passò il tempo sui miei passi, e pian piano mi colmai di cose dimenticate che pian piano mi dimenticarono. 
Luis Sepùlveda


Dalla solitudine dell'infinito affiora una luce che pensavo aver perduto per sempre.



L'odore del fieno. Pampaluna.


giovedì 24 gennaio 2013

...E noi uomini non eravamo infelici


"E' così grande la vita. Un attimo fa mi sembrava che quanto ho fatto fosse previsto da diecimila anni, poi ho creduto che il mondo si aprisse in due parti, che tutto diventasse di un colore più puro, e noi uomini non eravamo infelici". Quanta immensità è contenuta in queste parole. Come sono state scelte e con quanta cura sono state selezionate da Roberto Arlt è un mistero che difficilmente riuscirò a scoprire. 

Pozzanghere e sole a spruzzi. Sono giornate che non si svelano, che lasciano a noi il piacere di essere scoperte. E io le scopro tristi e rabbuiate, chiuse in loro stesse, nel grigiore di un tempo pallido. Se non mi aggrappo a qualcosa rischio di perdere l'equilibrio. Quel ronzio nella testa. Voglio circondarmi di cose solo mie, dei racconti di Sepùlveda, delle poesie di Garcia Lorca, dello scaldotto che mi ha regalato mamma quando ho lasciato casa, del taccuino comprato a Parigi, della penna, del mio cuscino morbido. Voglio circondarmi di persone solo mie, mio figlio, mio marito. Un famiglia dentro una casa. La tv accesa e la tavola apparecchiata. Cose rassicuranti, cose che nessuno può togliermi, cose che non fanno male.

Da un post di Noemi Cuffia, meglio conosciuta come tazzina di caffé, ho ripensato alla maternità, a quei nove  mesi che, come dicevo ieri commentando il suo post, sono lunghi ma anche corti e le ultime settimane sono scandite da monitor e battiti cardiaci. Ero solita fare colazione ascoltando musica, una playlist che mi ha fatto mio marito e che mi rispecchia molto (poi un giorno la condivo con voi, per adesso me la coccolo ancora un po'). Ascoltavamo musica, io e Luca. E sono state le colazioni più belle della mia vita. Visto che non sono una da uncinetto e ricette della nonna, mi sono messa a scrivere recuperando il tempo perduto dal momento che nei mesi precedenti lavoravo dall'altra parte di Roma e, fatta eccezione per il giornale nel quale scrivevo, non mi restavano energie sufficienti per scrivere qualcosa che fosse davvero mio. 

Il blog è nato così. Per avere una cosa mia. Per coltivare una cosa mia. E' cresciuto con Luca, tuttora sta crescendo con lui, gli stessi progressi, la stessa velocità di apprendimento, le stesse potenzialità. Certe cose si danno per scontate e invece non lo sono. Lo si capisce quando ci si guarda dall'esterno, come fossimo spettatori delle nostre vite. 

In questi giorni mi sto guardando dall'esterno notando, con grande stupore, con grande meraviglia e anche con tanto dolore, che non c'è niente di scontato. Quello che ho dato per scontato è, per molti, sinonimo di fatica, preoccupazione, pianto, dolore. E quindi non farò più quest'errore, niente sarà più dato per scontato, al contrario. Curerò e starò ben attenta a preservare ciò che mi circonda. Le cose solo mie, le persone solo mie. Soprattutto le persone.

L'ho già detto qualche giorno fa, è un periodo di mutamenti, di progetti, di cose da archiviare, di altre da imballare. E' un periodo che non conosce tregua ma è la stessa situazione a piacermi, a vedermi felicemente calata nella parte che amo di più cioè cambiare. Vivere.

mercoledì 23 gennaio 2013

Panorama cieco di New York



Io molte volte mi sono smarrito
per cercare la bruciatura  che mantiene ben desta le cose

Federico Garcìa Lorca - Panorama  cieco di New York

martedì 22 gennaio 2013

I miei martedì col professore


Dilatazione temporale. E' da un po' che voglio presentare questo romanzo, ma i giorni si susseguono e le settimane si accavallano. Foglie secche e rugiada. Il libro è stipato tra volumi prepotenti, grossi, che stancano la vista. E infastidiscono. Mi sono ripromessa di trovargli una sistemazione adeguata. Per adesso si trova sulla mensola sopra al letto. L'ho preso in mano in un giorno di pioggia, avevo bisogno di sfogliare pagine vissute e rivedere frasi sottolineate da una mano incerta. Sono stata investita dalla profondità e dalla saggezza di questo romanzo. Semplicità narrativa e voracità tematica.

I miei martedì col professore (Rizzoli, 1998) di Mitch Albom è il racconto onesto e delicato di un incontro tra un professore e il allievo, tra Morrie e Mitch. Un incontro che rivela la fragilità dell'uomo, la contingenza di certi eventi che muta il valore degli stessi. Morrie è stato il professore con il quale Mitch si è laureato; il giorno del lancio dei tocchi è anche il giorno della commozione di Morrie e di quella promessa strappata alle spalle generose ma ingenue di Mitch: mantenere i contatti. 
Si rividero molti anni dopo quando Morrie aveva smesso di ballare, quando le sue gambe avevano smesso di camminare, quando tutto il suo corpo era dipendente dalle cure della moglie Charlotte o delle infermiere o dei medici. Si rividero quando la sua malattia era allo stadio terminale. Morrie lo sapeva che gli restavano poche settimane e non voleva perdere un minuto di più.  

La loro amicizia, iniziata nella primavera del '76, smantellò gli anni di silenzio, la promessa mancata di Mitch e riprese sedici anni dopo la sua laurea. L'ultimo corso che Morrie terrà a Mitch ha iniziato proprio nella sua casa, lui sulla sedia a rotelle e Mitch imbarazzato e profondamente in colpa per non aver saputo fare di meglio. Morrie fissa anche un giorno, come si fa con un corso di laurea. Il martedì. Ogni martedì Mitch raggiungerà la casa di Morrie e gli insegnerà ciò che è più difficile insegnare: vivere, amare, morire. 

I miei martedì col professore è un libro che emoziona, che stronca la voce e obbliga a leggere col cuore. E' un libro scritto con grande lucidità. E' uno di quei libri che vorresti rileggere a tuo figlio prima di addormentarsi, pagine che sottolinei più e più volte mentre pensi: questa la leggo stasera a mio marito. 
Io ho fatto così.

lunedì 21 gennaio 2013

La forza delle parole


La forza della parola. Ho sempre creduto nella forza della parola, ci credevo da bambina quando i libri erano pezzetti di mondo liquido dentro al quale rifugiarmi, ci credo ora che le responsabilità mi inchiodano alla realtà più di quanto non voglia e il rifugio, spesso, me lo devo costruire e soprattutto saper difendere. Ma non è sempre stato il mio forte, la parola. Banchi segnati dal tempo, cartelloni appesi alle pareti. All'asilo ero quella diversa perché parlavo male; bambini che feriscono altri bambini. E' passato così tanto tempo che i ricordi hanno lasciato il posto a immagini sfocate. 

Superati questi ostacoli, la parola è diventata centrale nella mia vita. Come insegnante, come mamma, come ragazza che ha un bisogno viscerale di scrivere sempre, ogni giorno, ogni ora. Casa mia è tappezzata di frasi che ho letto, frasi legate a un momento della mia vita, frasi memorabili dette o sentite, comunque nell'insieme si tratta di parole unite da una forza straordinaria. 
Su di me come scrittrice ho avuto modo di parlarne qui, sulle tre parole che caratterizzeranno la mia scrittura nel 2013 ne ho parlato qui, mentre oggi parlo di ciò che anima la mia scrittura. Sono quattro le parole che ho scelto e che meglio delineano il mio modo di scrivere. Come per i due post precedenti anche questo è frutto dell'idea Scrivere nel 2013 di Daniele Imperi su Penna Blu

La scrittura è nata con me, è cresciuta, si è evoluta, ha subito bruschi arresti per poi maturare. Posso affermare quindi che la mia scrittura è in continuo divenire. Ad ogni modo cerco sempre di non rileggermi, soprattutto se si tratta di scritti lontani, in termini temporali, tra loro perché vorrei evitare spiacevoli sorprese (del tipo: ma guarda come scrivevo male!). Se penso a tutto ciò che ho scritto fino ad oggi, a ciò che ho pubblicato, a quello che ho lasciato nel cassetto, al romanzo a cui sto lavorando, ai racconti credo di poter definire la mia scrittura sulla base di quattro parole correlate tra loro: memoria, lirismo, vita, forza. Queste parole descrivono il lavoro fatto fino ad ora e quindi la situazione attuale nella quale mi ritrovo. E' una scelta contingente al momento che sto vivendo ma potrebbe non essere più valida tra sei mesi o tra un anno.

Memoria. Spesso ho scritto partendo dai ricordi del mio passato soprattutto a quelli legati alla mia infanzia. Credo sia la parte più sciagurata della mia vita ma anche la più fortunata perché si è rivelata (e si rivela tuttora) un pozzo inesauribile di sfumature, di spunti, di personaggi da approfondire per storie presenti e future. Molto di ciò che ho scritto in una raccolta di racconti è tratto proprio da un ricordo indelebile della mia infanzia che permane ancora oggi e che mi accompagnerà per sempre. Scrivere della mia infanzia non significa, per come la vedo, gettare le basi per un'autobiografia, anche perché non sarebbe il momento, non mi sentirei pronta per un passo del genere. Ogni cosa che ho scritto prende spunto da una memoria del mio passato per poi articolarsi, infittirsi di particolari.

Lirismo. Questa è una qualità che mi hanno spesso attribuito. Personalmente è qualcosa a cui tendo da tempo. E' difficile da raggiungere e altrettanto da mantenere. Credo che il lavoro maggiore sia scavare dentro di sé e lasciarsi andare a tutto ciò che è emozionale e sentimentale. Una volta ottenuto questo primo traguardo bisogna fare un lavoro accurato, limare, ripulire dalle sbavature, circoscrivere le emozioni senza con questo scadere nella razionalità. Lo studio quindi svolge un ruolo altrettanto importante nel processo lirico. Quello che fino a questo momento ho cercato di fare è scavare dentro di me e studiare il più possibile gli autori che ritengo i miei maestri. Diciamo che questa seconda caratteristica rappresenta più che altro una meta ambita che spero di definire presto.

Vita. Quando scrivo racconti o romanzi voglio che la storia viva di vita propria, che abbia un'anima, che riesca ad arrivare al cuore delle persone smuovendo qualcosa che sia anche solo rabbia. Voglio scrivere di storie vive, voglio che i personaggi siano persone, con un carattere ben definito, un lavoro, amicizie, abitudini e affetti chiari, lineari, oppure intricati e complicati come tante vite di persone che conosciamo. Insomma la storia deve respirare e camminare con le sue stesse gambe. Anche questo non è sempre facile da raggiungere. Ho scritto storie vere perché basate su un particolare della mia vita reale, ho cercato di arricchire la trama con  persone nelle quali il lettore si potesse immedesimare, ho studiato a lungo per rendere la narrazione il più possibile lirica sfruttando ciò che era il mio coinvolgimento emozionale nella storia senza, con questo, slittare verso l'autobiografia. Sono stati lavori lunghi ma che hanno dato grande soddisfazione. E poi ho scritto storie piatte, senza spessore, storie che esistevano solo nella mia testa che non potevano avere un riscontro nella realtà. Erano parole sterili, senza forza alcuna.

E veniamo all'ultima parola. Forza. Così come amo leggere storie narrativamente forti, di grande sensibilità, tendo a scrivere (o almeno questo è un altro dei traguardi che voglio raggiungere) storie di grande impatto emotivo. Questa tuttavia è un'arma a doppio taglio in quanto spesso mi è stato sottolineato che la troppa emotività rischia di schiacciare la storia oppure di trasfigurarla mandando fuori strada il lettore. 

Questo è quanto scrivo e quello su cui sto lavorando ogni giorno. Non sempre riesco nei miei intenti ma, come ho detto prima, è un lavoro in continuo divenire.

La casa rossa di Mark Haddon


"Come parlano chiaramente le case, di paesaggio e intemperie, di chi le ha costruite e delle famiglie che le hanno abitate, di ricchezza, paure, bambini, domestici". Con lirismo poetico Mark Haddon mette in scena quella che potrebbe essere una rappresentazione teatrale costruita sullo stile pirandelliano: La casa rossa (Einaudi, 2012) è la storia di otto personaggi in cerca d'identità, la crisi del matrimonio e delle istituzioni tradizionali, la religione messa in discussione dai giovani e poi dagli adulti. Un romanzo che potrebbe apparire come una sceneggiatura per il modo, assolutamente contemporaneo, di mettere in scena i personaggi in un lasso di tempo determinato (una settimana) e per la loro peculiarità interpretativa, la caratterizzazione attraverso la quale ognuno è riconoscibile dal lettore fin dalle prime pagine. Solo loro non si riconoscono, solo i personaggi non si sentono appartenenti a un gruppo, a una famiglia, a una coppia. I personaggi vivono in una solitudine abbacchiata da una modernità che non sanno, e talvolta alcuni non vogliono, riconoscere e condividere.

"Dietro a ogni cosa c'è una casa. Dietro a ogni cosa c'è sempre una casa". E' il grido disperato di Angela, insegnante, madre di tre figli, Alex, Daisy e Benjy, moglie di Dominic, madre di una quarta figlia, Karen, colei che si staglia sull'orizzonte della campagna inglese, la cui presenza aleggia sulla casa rossa come una condanna o come un invito a ricordare ad Angela di non far decadere nell'oblio il passato di una vita insieme; è il grido di Dominic, l'antieroe moderno, colui che fugge dalla famiglia nascondendosi tra le braccia di Amy (amante, amica, confidente, mamma), un rifugio effimero, dal quale Dominic scapperà per tornare di nuovo tra le mura della casa rossa, animato da poca convinzione. Ma è anche il grido dei loro figli: Alex innamorato, Alex eccitato, Alex amante della storia e della filosofia, Alex dalle spalle robuste che si fa carico dei problemi dei suoi fratelli e degli adulti che lo circondano; Daisy che arranca per sentirsi qualcuno, per capire qualcosa di qualcuno ma la prima a non capire è proprio stessa; Benjy "il bambino allo stato liquido contenuto nello spazio che di volta in volta occupava". E' il grido di Richard, il fratello di Angela, il medico sotto accusa per un intervento andato male, l'uomo che si è rifatto una vita con Louisa, ma soprattutto colui che non dimentica, colui che sa cosa nasconde la casa rossa, per lui i ricordi sono difficili da sostenere ma comunque vividi nella memoria; è il grido di Louisa, la donna dal passato "torbido" che vorrebbe essere allo stato liquido, come il piccolo Benjy, ma non può, le responsabilità le impediscono ciò; ma è anche il grido di Melissa, figlia bella, stronza e supponente di Louisa.

Ogni personaggio urla la propria disperata solitudine ma nessuno corre in soccorso. Nessuno si salva da solo come ha scritto la Mazzantini. E difatti all'interno della claustrofobica casa rossa i personaggi parlano una lingua muta, si perdono e si ritrovano tra quelle mura, e la vacanza organizzata da Richard stesso assume i contorni di un'indefinita storia poetica che cela, nel passato di ognuno di loro, la risposta alle tante domande presenti.  

domenica 20 gennaio 2013

sabato 19 gennaio 2013

Street Art Around the World

Germania

Finlandia

Beirut

Inghilterra
Francia

Johannesburg



venerdì 18 gennaio 2013

Land Art di Andy Goldsworthy


Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l'ha già creata. (Albert Einstein) 

Concettualismo e minimalismo si fondono nelle opere di Andy Goldsworthy. Il paesaggio viene trasfigurato e la natura diventa la protagonista di una storia forte che guarda all'uomo come uno spettatore incredulo davanti alle potenzialità della natura stessa. Land Art, così viene definita l'arte dell'artista e fotografo inglese, gode del valore dell'elemento sacro che riscatta queste opere, le quali, altrimenti, rientrerebbero e si confonderebbero con le tante appartenenti alle site specific

Jeffrey Kastner, critico d'origine americana, ha definito la Land Art come un movimento sociale e politico che mira alla trasformazione della mentalità culturale di un Paese. Kastner ha delineato le origini di questo movimento intorno agli anni sessanta in seguito al movimento femminista e all'interesse per l'ecologia. Andy Goldsworthy sceglie luoghi incontaminati e difficili da raggiungere, utilizza materiali che trova in natura (foglie, sassi, rami) e attraverso la fotografia riesce ad immortalare molte delle sue opere d'arte.